LA GESTIONE DELLE RISORSE UMANE, IL RUOLO ED I POTERI DEL DIRIGENTE, LE RELAZIONI SINDACALI, LA VALUTAZIONE, LA RETRIBUZIONE

 

Di Arturo Bianco

 

PREMESSA

Il processo avviato dal DLgs n. 29/1993, testo che è successivamente stato trasfuso nel DLgs n. 165/2001, ha portato alla privatizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici ed alla distinzione delle competenze tra organi politici e dirigenti. Quest’ultima scelta è inoltre contenuta, per gli enti locali, nelle principali norme di riforma che sono state dettate dal 1990 fino ad oggi, vedi in particolare la legge n. 142/1990, il DLgs n. 77/1995, la legge n. 127/1997, la legge n. 265/1999 ed il Dlgs n. 267/2000.

Siamo dinanzi a prescrizioni che continuano ad essere pienamente valide, sia nella loro impostazione di fondo che nelle legittimità, anche oggi e nel prossimo futuro su tutto il territorio nazionale. Sul terreno giuridico, la lettura della riforma del titolo V della Costituzione, che pure non ha espressamente inserito questi tra i temi rimessi alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, ci richiama alla necessità di considerare che siamo dinanzi a temi che possono essere ascritti, per gli enti locali, nel novero delle “funzioni fondamentali”, quindi ricomprese nella competenza legislativa esclusiva dello Stato. E per tutte le PA arriviamo alla stessa conclusione sulla base della attribuzione alla competenza legislativa statale dell’ordinamento civile, nonché sulla base del principio che siamo dinanzi a norme di attuazione di quanto dettato dall’articolo 97 della Costituzione, in particolare per la imparzialità ed il buon andamento della attività amministrativa.

Sul terreno di merito, cioè sulle ragioni che hanno indotto il legislatore ad effettuare tale scelta, occorre considerare che appare sempre più necessario che la gestione delle PA si caratterizzi per il ruolo centrale che deve essere svolto dai dirigenti, cioè da soggetti che sono portatori di una specifica professionalità, non solo di tipo tecnico ma anche di tipo manageriale. Scelta che si collega, in particolare per gli enti locali, allo sviluppo del processo di valorizzazione delle competenze gestionali, in particolare dei comuni, scelta che il legislatore sta portando avanti da tempo attraverso interventi effettuati con la legislazione ordinaria e che è stato ulteriormente rilanciato dalla riforma del titolo V della Costituzione.

Le due scelte di fondo compiute nel DLgs n. 165/2001, e cioè la privatizzazione o contrattualizzazione del rapporto di lavoro e la distinzione delle competenze tra organi politici e dirigenti, sono tra loro strettamente ed indissolubilmente legate. Alla base di tale legame la chiara opzione in direzione della riforma della attività amministrativa, obiettivo che è peraltro anche alla base della legge n. 241/1990 e, in particolare, della valorizzazione del procedimento. Tali scelte sono inoltre collegate dalla attribuzione ai dirigenti di un ruolo centrale nella attività gestionale. Essi svolgono, come sappiamo, tutte le competenze gestionali, anche se ad elevato tasso di discrezionalità politica, e sono direttamente, ed in via esclusiva, responsabili dei risultati raggiunti. Sul terreno della gestione delle risorse umane sono individuati come i soggetti a cui sono attribuiti “le capacità ed i poteri del privato datore di lavoro”, a partire dalla attribuzione del cd jus variandi. Di conseguenza tutti gli atti di gestione, con la esclusione di quelli espressamente indicati dalla legislazione, hanno la natura di atti privatistici, esattamente di atti unilaterali di diritto privato. E, come tali, non necessitano di una specifica motivazione, né devono essere preceduti da una comunicazione di avvio del procedimento; mentre sono per espressa previsione dettata nel nuovo testo della legge n. 241/1990 assoggettati ai vincoli posti per la tutela del diritto di accesso ai documenti amministrativi.

 

 

CAPITOLO 1: LA GESTIONE DELLE RELAZIONI SINDACALI

 

Nell’ambito della attribuzione ai dirigenti delle capacità e di poteri del privato datore di lavoro, occorre dedicare una specifica attenzione alla gestione delle relazioni sindacali. Siamo dinanzi ad una tematica che assume una notevole importanza e per la cui gestione si richiede una specifica professionalità.

L’importanza di questo fattore è significativamente cresciuto negli ultimi anni. I contratti collettivi nazionali di lavoro, in particolare quelli stipulati a partire dal 1999, cioè dopo la riforma operata dai Dlgs n. 396/1997 e n. 80/1998, si caratterizzano per la significativa valorizzazione del ruolo e del peso della contrattazione decentrata, nonché per la crescita dei suoi margini di autonomia. Occorre ricordare che negli enti locali, come in tutte le Pubbliche Amministrazioni, il ruolo di punta è in questa materia attribuito ai dirigenti, a cui il legislatore attribuisce i ”poteri e le capacità” del privato datore di lavoro. In tale ambito occorre ricomprendere anche la figura del segretario, che svolge compiti di coordinamento dei dirigenti; tale ruolo è da considerare come ulteriormente accresciuto nel caso in cui gli vengono attribuiti i compiti di direttore generale.

Negli enti locali la situazione concreta molto spesso è completamente diversa dal modello ipotizzato dalle norme e di difficile gestione; basta ricordare la presenza ed il rilievo che possono assumere i seguenti fattori:

  1. la diffusa vocazione degli amministratori a ricercare il consenso dei dipendenti;
  2. la assenza di una strategia complessiva di organizzazione e di sviluppo del personale;
  3. la conoscenza spesso poco attenta delle disposizioni contrattuali;
  4. la forza dello spirito di imitazione di esperienze praticate in altri enti locali;
  5. la sostanziale assenza di professionalità esperte nella tecnica delle relazioni sindacali.

Le indicazioni esistenti dall’analisi dei contratti decentrati confermano la sostanziale debolezza delle amministrazioni locali; in particolare si deve sottolineare che:

1)    molto spesso gli oneri sono superiori a quanto previsto dalla contrattazione nazionale;

  • risultano essere disciplinate dai contratti decentrati materie che non sono rimesse alla contrattazione, ma che sono oggetto di altre forme di relazioni sindacali (concertazione ed informazione);
  • molti istituti vengono applicati in modo distorto (basta ricordare le diffuse e non selettive progressioni orizzontali, nonché la erogazione a pioggia delle indennità di produttività e di video terminalisti, l’uso improprio della indennità di disagio, etc);
  • la composizione delle delegazioni trattanti di parte pubblica, spesso largamente caratterizzate dalla presenza di soggetti che sono direttamente e personalmente interessati dagli esiti della contrattazione;
  • non sono utilizzate le forme di flessibilità organizzativa introdotte dai contratti.

La presenza di questo insieme di elementi evidenzia gli esiti complessivamente non soddisfacente a cui è fin qui approdata la gestione delle relazioni sindacali nella gran parte degli enti locali e la assoluta necessità di apportare elementi di correzione e di integrazione.

 

  • LA TEORIA NEGOZIALE

La negoziazione presuppone l’esistenza di una interdipendenza tra gli attori: ciascuno ha bisogno dell’altro per soddisfare i propri interessi o valori ed ancora essa interviene tra interessi o valori delle parti che sono, almeno in parte, divergenti. Per questa parte utilizziamo ampiamente il lavoro del prof. Lino Codarda, dell’Università di Brescia.

Tali due elementi sono assai importanti, in quanto ci richiamano alla constatazione della “interdipendenza” tra le parti, cioè nessuna è dotata di un potere assoluto ed incondizionato. Le norme sul lavoro pubblico ci ricordano che nelle materie aventi come contenuto la erogazione di trattamenti economici, occorre necessariamente che gli stessi siano oggetto di una specifica e preventiva contrattazione; ma questo non significa che la parte sindacale abbia un potere di tipo assoluto. E’ infatti vincolata al rispetto delle indicazioni contenute nella contrattazione nazionale ed, in ogni caso, la assenza di una norma contrattuale può avere anche effetti negativi prevalentemente per i lavoratori.

Non meno rilevante è l’importanza della seconda considerazione: gli interessi rappresentati nella contrattazione sono, almeno in parte, tra loro divergenti. Quindi, gli interessi del datore di lavoro sono, almeno in parte, divergenti da quelli di cui sono portatori le organizzazioni sindacali.

Sulla base della definizione di Howard Raiffa “si assiste ad un processo negoziale in tutte quelle situazioni in cui due o più parti riconoscono l’esistenza di differenze di interessi o di valori tra di loro, ma intendono o sono costretti a raggiungere un accordo”.

Esistono, in linea teorica, due tipi di negoziazione: distributiva ed integrativa.

La negoziazione distributiva si ha nel momento in cui i negoziatori sono impegnati a distribuire una risorsa limitata e sono portatori di interessi tra loro contrapposti. Si prevede una “somma zero”. Essa si sviluppa intorno ad una cd “zona negoziale”, delimitata dai punti di resistenza dei negoziatori, cioè il minimo di utilità che le parti ricaverebbero comunque, anche in assenza di un accordo. L’unica strategia applicabile è quelle di tipi rivendicativo. In questo tipo di negoziazione due sono gli elementi di comportamento di grande importanza:

  1. cercare di stimare dove si colloca il punto di resistenza della controparte, per ottenere il massimo senza rischiare rotture;
  2. manipolare la percezione della situazione della controparte per indurla a fare la concessione più grande.

La negoziazione integrativa si sviluppa quando i negoziatori sono impegnati nella ricerca di un valore aggiunto per entrambi; si instaura un gioco “a somma variabile”. Due sono le strategie applicabili da parte degli attori: creare valore e rivendicare valore.

In tale ambito matura quello che viene chiamato il paradosso del dilemma del prigioniero, collaborare o defezionare. Ciascun giocatore ha una strategia dominante, cioè da adottare de vuole essere razionale. Ma se tutti e due i giocatori utilizzano la loro strategia dominante, il risultato è per entrambi peggiore di quanto otterrebbero violando il principio della razionalità. Le soluzioni, cioè il punto di equilibrio, sono raggiungibile attraverso la fiducia e l’iterazione del gioco. Laddove tale tipo di negoziati durino nel tempo gli attori possono rinunciare alla massimizzazione dei loro interessi nel breve termine in virtù di quelli di lungo periodo.

Il potere negoziale dipende dalla “struttura delle interdipendenze”: esso è infatti più elevato in capo ai soggetti che controllano risorse essenziali per l’altra parte e che può decidere di ritirare a proprio arbitrio. Ed ancora esso è più elevato nel soggetto che è in grado di suscitare aree di incertezza nell’altra parte; per suscitare aree di incertezza si deve intender la rottura delle regole di reciprocità attraverso il ritiro o la indisponibilità della propria prestazione. Alla luce di queste considerazioni si deve arrivare alla conclusione che il potere negoziale e la negoziazione siano un “gioco sulle regole”: il potere viene esercitato minacciando la trasgressione delle regole ed imponendo così l’avvio di un processo di ridefinizione delle nuove regole. In tale ambito acquista un grande rilievo concreto la determinazione con cui il soggetto mette in campo le proprie iniziative, cioè esercita il proprio potere negoziale; la determinazione è correlata alla capacità di sapere valutare le conseguenze delle proprie scelte. Ed un particolare rilievo acquista la capacità di sapere fare i conti con le proprie divisioni interne, avviando su tale fronte –ove necessario- una negoziazione interna, che si connette al negoziato interno.

Le regole negoziali sono definite dalle parti sulla base dell’equilibrio delle convenienze; mentre le regole normative sono organizzate gerarchicamente. In tale ambito si possono richiamare regole utilizzate con altri soggetti. Il potere negoziale non è legato esclusivamente alla minaccia dell’uso della forza: si possono richiamare a proprio vantaggio norme e principi più generali a cui la controparte, a pena di danni e/o ritorsioni maggiori, non può contravvenire. Non di minore rilievo è la capacità creativa di mobilitare a proprio vantaggio dei principi di carattere generale.

 

  • INDICAZIONI OPERATIVE

Il processo negoziale può essere distinto in tre fasi: strutturazione strategica; fase tattica e soluzione del gioco negoziale

  • Nella fase della strutturazione strategica si devono definire: i temi che entrano a far parte della trattativa, i partecipanti, le risorse attivabili, le aree di incertezza, le possibili soluzioni. Per la definizione dell’agenda occorre avere chiaro che siamo dinanzi ad un momento conflittuale. Tale definizione può avvenire sia in sede pregiudiziale che nel corso del negoziato; per i partecipanti, occorre mettere in conto le conseguenze delle scelte sui temi da inserire; per le risorse attivabili si devono considerare le conseguenze delle possibili convergenze di soggetti esterni; per le aree di incertezza diventa molto rilevante la capacità di sapere attivare un sistema di alleanze con soggetti esterni; non minore è la importanza di sapere prefigurare le possibili soluzioni ed i possibili scambi.
  • Nella fase tattica le parti esplorano la possibilità concreta di dare soluzioni ai conflitti, il che si realizza sia scambiandosi informazioni ed agendo concretamente, in particolare attraverso la prefigurazione di scenari e l’impegno attivo a perseguire soluzioni. In tale fase è opportuno distinguere tra comunicazioni non impegnative, cioè scambi di considerazioni e valutazioni, e comunicazioni impegnative, con cui si comunicano le proprie intenzioni negoziali.
  • La terza fase è costituita dalla soluzione del gioco negoziale, cioè dalla proposta di soluzione conveniente per le due parti, o –quantomeno- meno negativa delle conseguenze derivanti dal mancato accordo o dalla assunzione dell’onere di sancire la rottura. Essa deve tenere conto sia dei negoziati interni che di quelli esterni. Essa non vuole automaticamente dire che vengono risolti i problemi oggetto del negoziato, cioè che non necessariamente viene data una risposta ottimale alle esigenze da cui è scaturito il conflitto. Un accordo troppo penalizzante per una parte, ad esempio, non soddisfa in genere al requisito della stabilità dell’accordo.

 

Nella negoziazione vi sono quattro essenziali principi di conduzione di una trattativa:

  1. separare le persone dai problemi;
  2. concentrarsi sugli interessi e non sulle posizioni, cioè capire le ragioni della controparte, adottando anche al riguardo tutte le forme di comunicazione non impegnativa che si rendono necessarie;
  3. inventare soluzioni vantaggiose per entrambe le parti, cioè impostare il negoziato come un gioco a somma variabile e dare luogo a soluzioni creative. Si deve, al riguardo, tenere conto delle differenze tra gli attori per l’ordine di preferenza degli obiettivi, le stime di probabilità, il grado di propensione al rischio e le preferenze rispetto al tempo;
  4. insistere su criteri oggettivi, quali il valore di mercato, i precedenti, il giudizio scientifico, gli standard professionali, l’efficienza, gli standard morali, la tradizione, le possibili decisioni di un tribunale e la parità di trattamento.

 

I comportamenti consigliati sono i seguenti:

  • porre molte domande per comprendere bene le esigenze e gli interessi dell’altra parte;
  • effettuare brevi sintesi per definire lo stato della discussione ed i punti su cui c’è un accordo;
  • iniziare ad esporre i motivi prima di esprimere il disaccordo;
  • segnalare anticipatamente il comportamento successivo;
  • dimostrare attenzione all’interlocutore;
  • dimostrare coinvolgimento;
  • esprimere considerazioni sulle proposte e sui comportamenti degli interlocutori, non sugli interlocutori;
  • non utilizzare espressioni irritanti;
  • non fare contro proposte;
  • evitare di entrare in spirali difesa/attacco;
  • avere un chiaro indirizzo politico, il che permette una riflessione sulla strategia organizzativa generale dell’ente, obbliga i politici a ragionare sull’impatto della contrattazione collettiva, favorisce la condivisione degli obiettivi, rafforza la delegazione trattante, favorisce una maggiore elasticità, responsabilizza la delegazione trattante, indica un atteggiamento attivo da parte dell’amministrazione, rafforza la capacità di elaborazione autonoma dell’ente. Essa deve essere elaborata con la partecipazione di tutte le componenti dell’amministrazione, politici e dirigenti, e la sua pubblicizzazione è da auspicare;
  • arrivare al tavolo avendo elaborato propose su tutti i temi in discussione;
  • stabilire priorità;
  • anticipare ed esplorare i possibili obiettivi sindacali;
  • preparare una specifica strategia da adottare al tavolo negoziale;
  • attribuire ruoli precisi ai componenti ed al capo delegazione.

Nel settore degli enti locali occorre inoltre dedicare una specifica attenzione, sulla base delle attuali regole contrattuali, alla definizione delle risorse da destinare al fondo per la contrattazione, sulla base dei chiari limiti posti dalla contrattazione nazionale.

Ed ancora, avere ben cura di non superare i paletti (in termini di materie e di soluzioni) posti sempre dalla contrattazione nazionale, in particolare per ciò che riguarda la distinzione tra risorse stabili e risorse variabili.

 

CAPITOLO 2: IL SISTEMA PERMANENTE DI VALUTAZIONE

Con le nuove regole introdotte dal legislatore negli ultimi anni e, soprattutto, con i contratti che si sono succeduti dal 1999 ad oggi, la valutazione del personale è diventata per gli enti locali uno degli aspetti fondamentali dell’esercizio dell’attività gestionale. In particolare essa diventa una delle attribuzioni caratterizzanti il ruolo dirigenziale.

“A questa responsabilità nessun “capo” può sottrarsi, essendo per definizione e per espresso contenuto di ruolo il diretto responsabile delle risorse consegnategli e, nell’ambito di tutte queste risorse, prime per importanza e strategicità, quelle di “personale” a lui affidate per il raggiungimento di specifici risultati” sottolineano Arturo Bianco, Amedeo di Filippo e Marco Laezza nel volume “La gestione del personale degli enti locali” (Maggioli editore, 1999).

Occorre subito evidenziare lo stretto nesso che intercorre tra la attività di valutazione e le ampie forme di flessibilità introdotte nella gestione del personale. Tra esse acquistano un peso particolare le nuove regole per la valorizzazione della produttività e l’ampliamento del peso del trattamento economico accessorio, in particolare per i dirigenti ed i responsabili, nonché la progressione economica orizzontale, strumento che per molti aspetti si può considerare come quello di maggiore rilievo.

La valutazione costituisce un momento centrale della gestione delle risorse umane e, in tale ambito, assolve a rilevanti funzioni di supporto concreto ed operativo. In particolare, essa costituisce uno strumento per la verifica delle attività svolte e offre un concreto aiuto al cambiamento ed al miglioramento della attività amministrativa.

Le norme contrattuali prevedono che negli enti si dia corso ad un sistema permanente di valutazione. Esso si articola, per i dirigenti, nel sistema di pesatura degli incarichi, a cui è connessa la quantificazione della indennità di posizione, e nel sistema di valutazione delle attività svolte dai dirigenti ai fini della erogazione della indennità di risultato. Si articola nei seguenti momenti, per ciò che riguarda il personale:

  • Sistema di pesatura delle posizioni organizzative, finalizzato alla quantificazione della retribuzione di posizione per i titolari di posizione organizzativa. Tale sistema deve essere adottato tanto negli enti con i dirigenti, in cui tali incarichi sono conferiti dai dirigenti, che in quello senza dirigenti, realtà in cui il conferimento della titolarità di posizione organizzativa remunera la attribuzione di incarichi dirigenziali da parte del sindaco ed in cui le relative risorse non sono prelevate dal fondo per la contrattazione decentrata, ma sono poste a carico del bilancio dell’ente;
  • Sistema di pesatura delle alte professionalità, finalizzato alla quantificazione della retribuzione di posizione per i dipendenti a cui sono conferiti incarichi di alta professionalità. Tale sistema deve essere adottato tanto negli enti con i dirigenti che in quelli che ne sono sprovvisti;
  • Sistema per la misurazione dei risultati raggiunti dai dipendenti cui sia stata attribuita la titolarità di posizioni organizzativa e/o degli incarichi di alta professionalità, finalizzato alla determinazione della retribuzione di risultato da attribuire ai titolari di posizione organizzativa;
  • Sistema per la valutazione dei dipendenti ai fini del riconoscimento della progressione economica orizzontale all’interno della categoria;
  • Sistema per la valutazione delle prestazioni dei dipendenti ai fini del riconoscimento della indennità di produttività da corrispondere a fronte del raggiungimento degli obiettivi assegnati.

 

Siamo, come si vede, dinanzi ad un sistema che si applica a tutti i livelli, posto che anche i segretari ed i dirigenti sono oggetto di valutazione e che anche ad essi sono posti degli obiettivi da raggiungere. Possiamo cioè dire che la logica degli obiettivi costituisce il tratto caratterizzante del modello che presiede allo svolgimento della attività amministrativa.

Le norme contrattuali vincolano la adozione del sistema permanente di valutazione del personale e di quello dei dirigenti alla utilizzazione di specifiche procedure di relazione sindacale.

In particolare:

1) sono oggetto di contrattazione decentrata integrativa a livello di ente :

  1. a) i criteri generali relativi ai sistemi di incentivazione del personale sulla base di obiettivi e programmi di incremento della produttività e di miglioramento della qualità del servizio; i criteri generali delle metodologie di valutazione ed i criteri di ripartizione delle risorse destinate alle finalità di cui all’art. 17, comma 2, lett. a) del CCNL 1 aprile 1999 (art. 4 c. 1, lett, B e c. 3,; vedi anche l’articolo 18 del CCNL 1 aprile 1999, per come sostituito dall’articolo 37 del CCNL 22.1.2004). Su questi aspetti ricordiamo che è materia di concertazione la metodologia permanente di valutazione;
  2. b) il completamento e l’integrazione dei criteri per la progressione economica all’interno della categoria (art. 16, c. 1, CCNL 31 marzo 1999 e art. 4 c. 3, CCNL 1 aprile 1999);
  3. c) le modalità di ripartizione delle eventuali risorse aggiuntive per il finanziamento della progressione economica e per la loro distribuzione tra i fondi annuali di cui all’art. 14 (art. 16, c. 1, CCNL 31 marzo 1999 e art. 4 c. 3, CCNL aprile 1999).

 

2) Sono oggetto di informazione ed eventualmente di concertazione sindacale (art. 16, c. 2, lett. B, C e D del CCNL 31 marzo 1999 e art. 7 c. 2, CCNL 1 aprile 1999):

  1. a) la valutazione delle posizioni organizzative e delle alte professionalità, ovviamente in termini di carattere generale, e la relativa graduazione delle funzioni;
  2. b) il conferimento degli incarichi relativi alle posizioni organizzative e delle alte professionalità, ovviamente in termini di carattere generale, e la relativa valutazione periodica;
  3. c) la metodologia permanente di valutazione di cui all’art. 6 del CCNL 31 marzo 1999.

 

 

2.1 LA VALUTAZIONE DEL PERSONALE

La valutazione del personale, per questa parte attingiamo largamente a Arturo Bianco, Amedeo di Filippo e Marco Laezza nel volume “La gestione del personale degli enti locali” (Maggioli editore, 1999), si può definire come la formulazione di: “un giudizio sistematico del valore di un individuo – con riguardo alla sua prestazione sul lavoro e al suo potenziale di sviluppo – per l’organizzazione di cui fa parte, espresso periodicamente, secondo una determinata procedura, da una o più persone appositamente incaricate, che conoscono l’individuo stesso e il suo lavoro”.

Dalla definizione data si evince che la caratteristica essenziale della corretta attività di valutazione è la sistematicità.

Attività sistematica di valutazione vuol dire esprimere giudizi secondo procedure definite e controllate, basate su premesse teoriche e metodologiche precise, tramite l’utilizzo di fattori predefiniti e formulate con l’impiego di un linguaggio e con tecniche comuni a tutti i valutatori.

La sistematicità del giudizio è, allo stesso tempo:

  • Un’esigenza per l’organizzazione;
  • Un diritto per il singolo individuo;
  • Una responsabilità (gestionale) per i capi.

Lo scopo preciso della valutazione sistematica del personale è, quindi, quello di tracciare per ogni persona un profilo completo e accurato del suo valore, attuale e potenziale.

Solo con l’approvazione del C.C.N.L. sul nuovo ordinamento professionale è fatto obbligo, (vedi art. 6) ad ogni ente di “adottare metodologie permanenti per la valutazione delle prestazioni e dei risultati dei dipendenti, anche (il che vuol dire “non solo”) ai fini della progressione economica di cui al presente contratto…”.

Questo passaggio contrattuale, per le sue implicazioni culturali e gestionali, è da considerarsi, senz’altro, come l’aspetto chiave dell’intero nuovo ordinamento professionale.

I fattori di valutazione si circoscrivono nettamente per delimitarsi agli specifici aspetti della prestazione lavorativa e del comportamento organizzativo.

La valutazione del personale non è una valutazione delle persone quanto una valutazione dei comportamenti organizzativi. La valutazione del personale, conseguentemente, diventa una leva di gestione finalizzata ad indirizzare i comportamenti delle persone agli obiettivi dell’Ente.

L’utilizzo di questo strumento, come di tutti gli altri strumenti che caratterizzano l’attività di gestione, è peculiarità e specifica attribuzione dei ruoli di capo.

Tutte le organizzazioni, attraverso i loro presidi gerarchici – i capi -, esercitano da sempre l’attività di valutazione del proprio personale, cioè esprimono un giudizio sulle singole capacità, sui meriti e sulle caratteristiche dei propri dipendenti, solo che non tutte lo fanno secondo le stesse modalità.

Per alcuni enti, l’attività di valutazione è un’attività formalizzata, per altri enti non lo è. L’alternativa, quindi, non è nel fare o nel non fare la valutazione del personale, tutte le organizzazioni, infatti, la fanno, quanto nel farla secondo un criterio di sistematicità e metodo oppure farla empiricamente, in altre parole, senza metodo. Una comparazione fra gli aspetti derivanti dall’impostazione della valutazione in termini formalizzati piuttosto che empirici può così essere sintetizzata:

Se la valutazione è FORMALIZZATA:

  • Si potrà operare in un sistema caratterizzato dall’applicazione di una METODOLOGIA, frutto di studi e di esperienze consolidate, e dall’uso di una STRUMENTAZIONE (manuale di valutazione, schede di valutazione, modulistica varia);
  • La valutazione sarà inserita e caratterizzata da un’ottica di processo, contraddistinta cioè dalla PERIODICITÀ’ e dalla CONTINUITÀ’(tutti hanno la certezza di essere valutati e ne conoscono le modalità);
  • I risultati saranno OMOGENEI, anche se fatte da valutatori diversi e quindi CONFRONTABILI sia nel tempo (valutazione dell’anno n con le valutazioni degli anni successivi), che nello spazio (valutazione di una partizione strutturale con le valutazioni di tutte le altre unità di struttura)
  • Si avranno sicuramente sempre MINORI DISTORSIONI valutative dovute al continuo addestramento e affinamento sia dei valutatori sia del sistema;
  • Possibilità di inserire i dati della valutazione in un SISTEMA GESTIONALE più ampio, che consenta in pratica di utilizzare queste informazioni anche per altre finalità gestionali (impostazione dei piani di formazione, percorsi di sviluppo del potenziale, piani di sostituzione, ecc.).

Se la valutazione NON E’ FORMALIZZATA:

  • Si opererà in un ambiente caratterizzato dalla estrema SOGGETTIVITÀ’,
  • La valutazione sarà caratterizzata e contraddistinta dalla SALTUARIETÀ’ e dalla CASUALITÀ’ (nessuno ha la certezza di essere valutato, né del come, né del quando);
  • Le valutazioni NON SARANNO OMOGENEE, quindi non sarà possibile confrontarle fra loro, sia nel tempo sia nello spazio;
  • Si avranno sempre MAGGIORI DISTORSIONI valutative;
  • Non sarà possibile inserire i dati della valutazione in un SISTEMA GESTIONALE più ampio, che consenta in pratica di utilizzare queste informazioni, anche per altre finalità gestionali (fabbisogni formativi, piani di mobilità, tavole di rimpiazzo, ecc.)

I principali obiettivi della valutazione sono relativi a:

  • Disporre di una base imparziale e oggettiva per adeguare il singolo aspetto retributivo al “valore” della Posizione occupata, determinando la relativa indennità (valutazione delle Posizioni);
  • Ottenere dati obiettivi e omogenei su tutto il personale, anche al fine di una migliore utilizzazione d’ogni risorsa umana: per attuare, in sostanza, quelle politiche di selezione e di acquisizione delle Risorse umane, di mobilità e di gestione dei trasferimenti che concorrono a definire “la politica del personale” di ogni singolo ente;
  • Disporre di elementi oggettivi e trasparenti per attuare delle corrette politiche di mobilità verticale e di progressione economica nonché d’applicazione dei sistemi incentivanti previsti dai C.C.N.L., (valutazione delle Prestazioni);
  • Disporre di un inventario delle capacità e delle potenzialità del personale per migliorare l’organizzazione e l’efficienza, nonché per far fronte in modo tempestivo e adeguato ad ogni futura necessità di variazione e/o di mutamento organizzativo (valutazione del Potenziale);
  • Rilevare i fabbisogni di aggiornamento, addestramento e di formazione, dati dalla differenza fra il livello delle conoscenze, delle abilità e delle capacità rilevate individualmente e quelle richieste o necessarie dalla posizione occupata o di futura destinazione;

Esistono poi altre finalità, non primarie, ma non per questo meno importanti, che i sistemi di valutazione formalizzati attivano in termini di ricaduta positiva. Queste sono:

  • La possibilità di aiutare lo sviluppo individuale attraverso la continua tensione al miglioramento che il personale attua consapevolmente quando è conscio che il singolo rendimento e la personale prestazione, siano gli stessi negativi o positivi, saranno valutati sistematicamente e periodicamente;
  • Contribuire a migliorare il morale aziendale, determinandosi nei dipendenti la convinzione della serietà con cui la Direzione s’interessa concretamente, e in modo trasparente, al personale;
  • Assicurare che i buoni elementi non saranno dimenticati (la valutazione formalizzata “toccherà” sempre tutti, riconoscendo i singoli meriti);
  • Stimolare la linea gerarchica dei capi a seguire, con metodo e con attenzione, ogni collaboratore, così da poter sempre esprimere un giudizio completo e rispondente alle reali “performances”;
  • Aiuta, infine, la Direzione a valutare i capi, in altre parole a giudicare la lealtà, la severità o l’indulgenza con cui ogni singolo capo giudica i propri collaboratori.

Inoltre, vi è da porre la dovuta attenzione al fatto che il desiderio di vedere considerato il proprio lavoro e di averne un riconoscimento in termini d’attestazione dei successi ottenuti, ovvero di essere stimati per i propri meriti, sono alcune fra le più forti motivazioni dell’uomo al lavoro.

L’assenza di una valutazione sistematica genera nel personale la convinzione, più o meno fondata, che i giudizi sui dipendenti, con le relative ripercussioni in termini di carriera e di sviluppo, siano gestiti in modo quantomeno “non lineare”, che questi giudizi siano, in pratica, attribuiti secondo parametri e valutazioni troppo soggettive ed empiriche che sfuggono a logiche d’oggettività, di trasparenza, di merito.

Questo contribuisce alla creazione di un generalizzato malumore, di un senso di sfiducia nell’Amministrazione dell’Ente, di un costante motivo di scontento, situazioni tutte che costituiscono un mix formidabile per il mantenimento d’alti livelli di conflittualità, latente e manifesta e, cosa ben più preoccupante, ingenera il contesto ideale in cui gli inetti hanno la possibilità di mascherarsi e i capaci trovano la possibilità di essere mortificati.

La valutazione sistematica può invece concorrere, per le sue caratteristiche, alla creazione di un clima aziendale positivo, disteso ed efficiente; ognuno e conscio, infatti, che sarà valutato per le sue prestazioni e per i suoi meriti, e vede che lo stesso principio e uniformemente applicato nell’organizzazione.

 

CAPITOLO 3: L’INCENTIVAZIONE DELLA PRODUTTIVITA’

La erogazione della indennità di produttività è una materia che è stata oggetto di innovazioni con il contratto collettivo nazionale di lavoro del 22.1.2004. Tali innovazioni, senza modificare quanto disposto sulle regole per la erogazione da parte del CCNL 1.4.1999, ne hanno modificato le parti relative al maturare delle condizioni in base alle quali essa può essere erogata ed hanno in particolare voluto sottolineare il carattere meritocratico che deve ispirare la utilizzazione di tale istituto.

Sulla base delle nuove regole, la erogazione della produttività è oggi sottoposta a rigide clausole:

1)     si deve realizzare un effettivo incremento della produttività,

2)     si deve concretizzare un miglioramento quali-quantitativo dei servizi,

3)     si devono raggiungere risultati aggiuntivi apprezzabili rispetto al risultato atteso dalla normale prestazione lavorativa.

L’erogazione del compenso di produttività, ricorda l’Aran in risposta ai quesiti posti, è sottoposta ad una preventiva valutazione dei risultati e delle prestazioni che è effettuata dai dirigenti.

Il primo passaggio, preliminare alla stessa valutazione effettuata dai dirigenti, è costituito dalla verifica del livello di conseguimento degli obiettivi indicati nel PEG o negli altri strumenti di programmazione, verifica che è effettuata dal servizio di controllo interno, cioè in linea generale si deve intendere che tale compito è attribuito al nucleo di valutazione. Fermo restando che sulla materia della concreta individuazione del soggetto a cui sono attribuiti negli enti i compiti di controllo interno e sulla definizione delle regole che presiedono alla sua attività, vi è una ampia autonomia statutaria e regolamentare attribuita ai singoli enti. Infine, i dirigenti la erogano sulla base di una specifica attività di valutazione.

Il CCNL del 22.1.2004 prevede che non è consentita la sua erogazione a pioggia, cioè sulla base di automatismi comunque denominati.

Tale divieto si doveva considerare implicito sulla base delle disposizioni contrattuali già esistenti, per cui siamo dinanzi ad una sua mera esplicitazione. Infatti, in questi anni abbiamo avuto alcune sentenze della Corte dei Conti che hanno riconosciuto il maturare di una responsabilità erariale in capo agli enti che hanno disposto la erogazione a pioggia della indennità di produttività. A nulla è valsa la considerazione che tali risorse sono comunque comprese nel fondo per la contrattazione decentrata; la erogazione a pioggia determina a giudizio della Corte dei Conti un danno in quanto dispone di fatto un mero aumento dello stipendio e non è collegata a prestazioni realmente aggiuntive. Si considerano a pioggia, tra gli altri, i seguenti criteri: presenza, categoria etc.

Sulla base delle prescrizioni introdotte dal CCNL 22.1.2004 non si deve provvedere alla erogazione della produttività a dipendenti che non siano effettivamente in servizio. Ed ancora, la sua erogazione deve essere limitata si dipendenti che hanno effettivamente raggiunto i risultati ad essi assegnati.

Non è possibile introdurre in sede di contrattazione decentrata nessuna diversa previsione, neppure se essa riguardi la attribuzione di una quota della produttività teoricamente spettante ad un dipendente di quella categoria.

Le norme del contratto nazionale hanno carattere vincolante e le eventuali diverse previsioni contenute nei contratti decentrati sono nulle e non possono essere applicate, in quanto in contrasto con le previsioni del CCNL.

La concreta erogazione della indennità di produttività è collegata alla valutazione che deve essere effettuata dai dirigenti o, negli enti che ne sono sprovvisti, dai responsabili.

Tale attività deve essere svolta sulla base dei criteri che sono definiti in linea generale nel contratto nazionale sul nuovo ordinamento professionale. Tali criteri sono oggetto di integrazione in sede di contrattazione collettiva decentrata. Costituisce infine materia di concertazione la definizione della scheda che applica le disposizioni contrattuali. E’ evidente che i criteri di valutazione definiti in sede di contratto decentrato devono essere coerenti con quelli selettivi e meritocratici contenuti nel contratto nazionale.

Non sono oggetto di relazioni sindacali le concrete attività di valutazione svolte dai singoli dirigenti e responsabili.

Gli enti devono definire la misura del salario di produttività. Tale quantificazione deve essere fatta in sede di contrattazione decentrata utilizzando la parte variabile delle risorse decentrate e, se si vuole, anche una quota della parte stabile.

Gli enti fissano i criteri di ripartizione del salario di produttività tra le varie articolazioni organizzative e/o centri di responsabilità o di costo. In tale ripartizione possono essere utilizzati esclusivamente criteri automatici, quali ad esempio il numero dei dipendenti, ovvero criteri discrezionali, quali ad esempio il rilievo delle attività. Si possono combinare tale fattori ovvero si può utilizzare anche gli esiti della pesatura delle posizioni organizzative. Altro punto che può essere introdotto è costituito dalla utilizzazione delle quote residue o non utilizzate, ad esempio per mancato raggiungimento in misura piena degli obiettivi. Riutilizzazione che può essere disposta, ad esempio, a vantaggio dei dipendenti delle articolazioni organizzative che hanno pienamente raggiunto gli obiettivi.

Una parte centrale nella disciplina della erogazione della indennità di produttività è costituita dalla definizione degli obiettivi. Essi possono essere strettamente collegati a quelli posti al dirigente o responsabile, talchè si stabilisca nell’ambito dell’ufficio un legame stretto ed una sorta di possibile “circuito virtuoso”.

Anche per questi obiettivi valgono le regole di carattere generale che presiedono alla definizione degli obiettivi: essi devono essere chiari, precisi, concreti ed effettivamente misurabili.

Devono concretamente consentire di raggiungere risultati aggiuntivi ed apprezzabili rispetto alle normali prestazioni di lavoro.

Essi devono essere comunicati in anticipo ai dipendenti, anzi possibilmente gli stessi devono concorrere alla loro definizione sulla base di una specifica proposta.

Il contratto collettivo nazionale di lavoro del 22 gennaio 2004 non parla in alcun modo di progetti di produttività o di piani di lavoro. Per cui possiamo sicuramente considerare tali strumenti, pure largamente utilizzati da molti enti, oggi al di fuori delle previsioni contrattuali.

In particolare, occorre ricordare che gli enti non possono disporre la erogazione di trattamenti accessori a fronte di specifici progetti o attività aggiuntive. Gli enti possono integrare le risorse decentrate, parte variabile, con risorse aggiuntive connesse alla attivazione di nuovi servizi e/o al miglioramento o ampliamento di quelli esistenti. Un percorso che cioè tende ad assicurare comunque una risposta alla esigenza di disporre forme aggiuntive di trattamento economico per la erogazione di servizi aggiuntivi.

 

CAPITOLO 4: SISTEMI DI RETRIBUZIONE E FORME DI INCENTIVAZIONE PER OBIETTIVI

Con il nuovo contratto del personale degli enti locali acquistano un peso centrale gli elementi di valutazione, sia delle prestazioni che del potenziale che delle posizioni, e diventa sempre più evidente il loro stretto collegamento con il trattamento economico accessorio. Nel volume di Arturo Bianco, Amedeo Di Filippo e Marco Laezza “La gestione del personale degli enti locali” (Maggioli editore 1999) leggiamo che “la valutazione delle Prestazioni costituisce, insieme alla valutazione del Potenziale, l’aspetto “soggettivo” di un generale sistema per la valutazione del Personale. L’obiettivo di questa valutazione è quello di individuare come il singolo individuo, in una visione di “gioco di squadra”, ha contribuito al raggiungimento dei risultati organizzativi. L’oggetto della valutazione è costituito, quindi, dal giudizio circa il “valore relativo” del lavoro svolto dalla persona che occupa una Posizione organizzativa, vale a dire del “valore” complessivo del livello di compiti svolti, di risultati ottenuti e di comportamenti mantenuti.

 

3.1 LA DEFINIZIONE DEL CONCETTO DI PRESTAZIONE

Per “Prestazione” s’intende: “quello che la persona ha fatto, e come lo ha fatto, in un periodo di tempo delimitato, rispetto ai compiti assegnati e ai risultati che l’organizzazione si attende dalla sua attività di lavoro.”

Quindi, si tratta di definire quali sono stati i suoi risultati quantitativi e qualitativi in un certo periodo, quale è stato il livello di preparazione professionale e di competenza dimostrato nel suo lavorare, quali degli obiettivi prefissati ha raggiunto e in che misura.

In sostanza, si tratta di verificare, prima, (fase di riscontro), e di valutare, dopo, (fase del giudizio), in quale misura e con quali modalità l’individuo ha svolto il suo “ruolo” (ruolo = comportamento esplicitato dalla persona sulla Posizione) nel periodo in esame.

Attraverso la valutazione si attiva quindi un processo periodico di determinazione di FATTI             (PRESTAZIONI, quantitative e qualitative, COMPORTAMENTI), e di CARATTERISTICHE SOGGETTIVE (CAPACITA’ e ATTITUDINI), svolto in maniera sistematica, sulla base di criteri uniformi e di una procedura determinata.

Perché il giudizio porti ad una valutazione corretta e obiettiva, occorre che lo stesso si fondi esclusivamente su dati e fatti relativi a questi eventi (attività, comportamenti, risultati), e non su opinioni personali o impressioni generiche.

 

3.2 LE FINALITA’ DELLA VALUTAZIONE DELLE PRESTAZIONI

All’attività di valutazione delle Prestazioni, ognuna delle componenti organizzative: l’Ente o Azienda, i valutatori (che sono i “capi”), e i valutati (che sono i dipendenti interessati), abbina specifici e propri obiettivi. Questi obiettivi non sono in contrapposizione, anzi, in una ottica di sviluppo queste tre angolazioni si integrano per concorrere a definire una moderna e professionale gestione delle risorse umane.

Ma quali possono essere questi singoli obiettivi?

 

  • Gli Obiettivi “aziendali”:
  • Migliorare l’orientamento ai risultati aziendali attraverso il maggior coinvolgimento e il continuo chiarimento delle responsabilità e dei compiti singolarmente attribuiti;
  • Favorire, attraverso la rilevazione sistematica e oggettiva delle prestazioni, un sistema di gestione e sviluppo delle Risorse Umane coerente con le politiche aziendali favorendo, in modo particolare, la definizione di uno stile di gestione attraverso:
  • La responsabilizzazione dei ruoli di “capo”;
  • L’omogenea parametrazione dei giudizi, effettuata attraverso la scheda di valutazione;
  • La comunicazione e la discussione dei risultati con gli interessati;
  • Rafforzare l’efficacia delle relazioni interne attraverso comunicazioni trasparenti e continue sui contenuti e sui risultati del lavoro;
  • Migliorare l’utilizzo delle risorse professionali;
  • Raccogliere indicazioni per l’attività di addestramento e formazione;
  • Razionalizzare e rendere più oggettivo il sistema di incentivazione economica.

 

  • Gli Obiettivi del “valutatore”:
  • Individuare i punti forti e i punti deboli della propria unità organizzativa, migliorandone i risultati, attraverso la continua analisi del rapporto tra obiettivi e risorse professionali;
  • Rendere i rapporti capo/collaboratori meno paternalistici e più professionali;
  • Esercitare al meglio le funzioni di coordinamento, guida e sviluppo dei collaboratori ottenendone, altresì, il coinvolgimento sui programmi di lavoro;
  • Verificare il proprio stile di gestione e la capacità d’essere “leader”.

 

  • Gli Obiettivi del “valutato”:
  • Migliorare la conoscenza dei compiti relativi al proprio ruolo;
  • Partecipare alla definizione delle modalità operative necessarie per raggiungere i risultati attesi;
  • Misurarsi con le aspettative del superiore (ottenendo risposta al bisogno di riconoscimento);
  • Conoscere i criteri e i risultati della valutazione della propria prestazione professionale per poterla verificare e migliorare;
  • Rispondere al bisogno d’appartenenza sentendosi membro attivo e integrato dell’Ente;
  • Trovare occasione per parlare dei problemi attuali e di programmi futuri (autorealizzazione)

La valutazione per obiettivi costituisce il metodo per determinare, nel modo più oggettivo possibile, il livello di prestazione dell’individuo con diretto riferimento al “cosa” ha fatto, ovvero con diretto riferimento ai risultati conseguiti.

Le premesse fondamentali per una corretta applicazione del metodo sono: una corretta definizione del campo di responsabilità “istituzionale”, riferita alla Posizione ricoperta dal soggetto da valutare, ovvero una definizione dei compiti e degli obiettivi prioritari, direttamente collegati allo scopo primario di costituzione della Posizione (perché esiste la Posizione? Cosa deve garantire? Quale contributo deve assicurare? Con quali modalità?)

Ed ancora, una corretta definizione del campo di responsabilità “specifiche”, attribuite alla Posizione in relazione a compiti e obiettivi riferiti ad attività richieste da particolari esigenze organizzative.

Questi due aspetti costituiscono la situazione strutturale “oggettiva”, e di partenza, da cui si avvia tutto il processo di definizione degli obiettivi di periodo, processo che vede, appunto, in questa situazione organizzativa lo “standard” di riferimento.

La valutazione per obiettivi prevede che il giudizio venga espresso rispetto ad una serie di obiettivi concordati preventivamente tra superiore e dipendente. In realtà, il capo non giudica, ma constata insieme al proprio collaboratore sia gli stati d’avanzamento verso il risultato sia il livello di raggiungimento degli obiettivi prefissati, cioè se i risultati attesi sono stati realizzati e, se non lo sono stati, insieme analizzano e identificano cause e ragioni della non completa loro realizzazione.

L’attenzione si sposta dal giudizio di merito alla comune gestione del “processo di valutazione”, degli obiettivi e dei risultati.

Quello che qualifica l’individuo, insomma, sono i risultati, non il giudizio dato dal capo.

 

3.3 LA INCENTIVAZIONE PER OBIETTIVI

Il contratto prevede varie forme di incentivazione del trattamento economico accessorio legato al raggiungimento di specifici obiettivi.

  • Per i dirigenti ed i responsabili a cui sono attribuiti gli incarichi di posizione organizzativa, abbiamo la corresponsione di una “indennità di risultato”. Essa varia dal 10 al 25% della indennità di posizione e la sua corresponsione è subordinata all’accertamento dell’effettivo raggiungimento dei risultati contenuti nel piano degli obiettivi approvato dalla giunta unitamente al PEG. Si richiede l’istituzione e l’attivazione del nucleo di valutazione ed il suo effettivo intervento.
  • Per i dipendenti esso è previsto dai già citati articoli 15 e 17 del contratto, come nuova forma “principe” di salario incentivante la produttività ed è subordinato all’effettivo raggiungimento dei risultati. Essi vengono accertati dai dirigenti in sede di valutazione dei dipendenti ed è previsto l’intervento del nucleo di valutazione per l’accertamento effettivo del complessivo raggiungimento dei risultati indicati.

Siamo quindi dinanzi a meccanismi e regole del tutto nuovi rispetto al passato. Meccanismi e regole che assumono con chiarezza le seguenti scelte di fondo:

  • fare crescere il peso del trattamento economico accessorio rispetto a quello fondamentale. Tale scelta è comune a tutte le categorie e si presenta in modo particolarmente marcato per i dirigenti e/o quadri;
  • collegare il trattamento economico accessorio a risultati effettivamente raggiunti ed a metodi selettivi, nonché alle scelte programmatiche dell’ente;
  • ottenere così effetti di flessibilità nella gestione delle retribuzioni.

In altri termini, la regola del “si sale e si scende” tende a diventare prassi anche negli enti locali. E’ del tutto evidente, a questo punto, la necessità di definire effettive pratiche di controllo gestionale, e non di legittimità formale, come contrappeso ad errori o forme “patologiche” di gestione delle nuove opportunità.

E’ inoltre facile prevedere che il passaggio alle nuove regole, rompendo abitudini inveterate, crei notevoli “problemi” nel primo impatto. E come tali problemi risulteranno ampliati nel caso di gestioni dei percorsi professionali che non risultino del tutto lineari e coerenti con gli obiettivi indicati e con le logiche volute dal contratto e, più in generale, dalla nuova legislazione.

 

CAPITOLO 5: DALLA PIANIFICAZIONE, PROGRAMMAZIONE E CONTROLLO DEI CARICHI DI LAVORO ALLA PROGRESSIONE DEL PERCORSO PROFESSIONALE

Il legislatore, nel corso della progressiva introduzione di nuove regole e del nuovo modello organizzativo, ha inteso trasformare i precedenti vincoli di legittimità ed i precedenti divieti in forme di controllo più razionale e “scientifico” sulla struttura degli enti. Il legislatore, in modo “pedagogico” annota Carmine Russo nel “Commentario al DLGS n. 29/93, Giappichelli editore 1995), cerca di guidare gli enti locali nel nuovo modello. A tal fine, in modo centralistico e tecnocratico, cerca di prevedere requisiti minimi essenziali che ogni ente locale, in modo differenziato, deve possedere.

In tal senso diventa emblematico quanto previsto nel passaggio dalla vecchia pianta organica al nuovo e più dinamico concetto di dotazione organica introdotto dal DLGS n. 29/93. Il passaggio prevedeva che ogni enti locale in modo obbligatorio proceda preventivamente, e ripeta periodicamente l’operazione, alla “rilevazione dei carichi di lavoro”. Tale rilevazione doveva essere effettuata con tecniche e modelli approvati preventivamente dal Dipartimento della Funzione Pubblica. Progressivamente, ed opportunamente, la norma viene temperata, fino a che oggi essa costituisce un obbligo per un numero ristretto ed una serie di casi ristretti. La norma tentava di dare una omogeneità minima, definita su caratteristiche e standard nazionali, alle dotazioni organiche. La norma tendeva anche a introdurre tecniche che consentano l’esame analitico ed il confronto tra le dotazioni organiche degli enti locali.

Con la successiva legislazione, in particolare legge n. 127/97, Dlgs n. 80/98 e legge n. 265/99, norme trasfuse nel DLgs n. 267/2000, nonché con le leggi finanziarie degli ultimi anni, si è scelto un percorso diverso. Tali nuove logiche hanno trovato un forte e positivo riscontro nel contratto quadriennale 1998/2001 e nel nuovo ordinamento professionale.

Due le scelte di fondo:

  • privilegiare la autonomia organizzativa dei comuni;
  • introdurre il dato della progressione del percorso professionale.

Occorre considerare che tale percorso nelle ultime leggi finanziarie ha conosciuto delle spinte contraddittorie, visto che la distinzione tra pianta organica e dotazione organica è stata confusa (vedi in particolare la mancanza di chiarezza sulla possibilità di prevedere posti non coperti e che l’ente non intende coprire attraverso la programmazione delle assunzioni).

5.1 L’AUTONOMIA DEGLI ENTI

Per la autonomia organizzativa si sono previste norme assai ampie, tranne che per i comuni dissestati o deficitari, comuni ad autonomia ridotta. La autonomia trova un limite nelle risorse finanziarie dell’ente e nella esigenza di assicurare al meglio l’espletamento dei compiti dell’ente stesso.

Essa trova inoltre un limite di principio nelle norme contenute nelle leggi finanziarie, nel patto di stabilità, nel DLGS n. 165/2001 e nello stesso contratto sulla indicazione della “riduzione delle spese per il personale”.

Sono emblematiche le regole dettate dalla legge n. 488/99. Esse prevedono indicazioni di principio che i singoli enti, in modo assolutamente autonomo, sono chiamate a recepire nei propri ordinamenti. Prevedono un percorso logico specifico preventivo alle nuove assunzioni, a partire dalla loro finalizzazione. Le nuove assunzioni devono costituire una risposta obbligata, occorre prevedere in che modo con interventi (anche formativi) si possano affrontare con risorse interne le nuove necessità, bisogna privilegiare quelle ad alto contenuto professionale. Ed ancora, occorre preventivamente verificare che non sia possibile dar corso ad assunzioni con strumenti di flessibilità (a tempo determinato, formazione/lavoro, apprendistato etc); una quota significativa deve essere destinata ai contratti a part-time, sia come nuove assunzioni che come trasformazione di posti esistenti. In tale ambito occorre peraltro evidenziare che la legge n. 488/99 prevede la possibilità per i dirigenti ed i quadri di accedere al part-time. Ed ancora sono state introdotte anche per le pubbliche amministrazioni una serie di ulteriori disposizioni di flessibilità.

La legge finanziaria 2005, legge n. 311/2004, dispone inoltre la riduzione della spesa prevista dalla dotazione organica nella misura di almeno il 5% sulla base di disposizioni, non ancora adottate, che devono essere contenute nel Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri con cui si pongono limiti alle assunzioni a tempo indeterminato per gli anni 2005, 2006 e 2007.

Occorre inoltre ricordare la ampia autonomia che gli enti hanno nella utilizzazione di risorse esterne con legami a tempo determinato, quindi senza appesantimenti definitivi. Possibilità che è attualmente preclusa agli enti che non hanno rispettato il patto di stabilità Ricordiamo la possibilità di nomina del direttore generale, ed ancora le opportunità di assunzione di dirigenti/responsabili per posti vuoti nella dotazione organica o, entro limiti numerici prefissati, al di fuori della stessa. Ed ancora le possibilità di conferimento di incarichi di consulenza e di alta professionalità, incarichi a cui non è connessa la possibilità si svolgere compiti gestionali. Possibilità di conferimento di incarichi che è sottoposto ai rigidi vincoli di tipo procedurale posti dalla legge n. 311/2004 per gli enti locali con più di 5.000 abitanti.

Occorre ricordare inoltre la incentivazione dell’associazionismo tra gli enti, in particolare tra i piccoli comuni: una scelta ed una sfida che diventano sempre più obbligate. In tale ambito, il DLgs n. 267/2000 ha sottolineato la costituzione di uffici comuni o il convenzionamento per la delega di funzioni e servizi, oltre alla individuazione di un responsabile per uffici di più enti. Tale possibilità è stata disciplinata, a livello di remunerazione, dal CCNL 22 gennaio 2004.

 

5.2 LA PROGRESSIONE DEL PERCORSO PROFESSIONALE
Le nuove regole introducono per gli enti locali una ampia flessibilità nelle forme di valorizzazione del percorso professionale del personale. Siamo dinanzi ad una importantissima serie di strumenti mutuati dal privato, ovviamente per quanto possibile, fermo restando che vige il vincolo costituzionale del pubblico concorso per l’accesso al rapporto di lavoro alle dipendenze di una PA. E che la Corte Costituzionale ha ripetutamente in questi anni sottolineato la necessità di rispettare tale prescrizione. Vediamone i principali:

 

  1. le regole sull’accesso;
  2. la progressione economica;
  3. la progressione verticale;
  4. i concorsi interni ed i concorsi con riserva;
  5. la formazione;
  6. il trattamento economico accessorio;
  7. le indennità di posizione e di risultato.

Si deve subito sottolineare la importanza delle nuove disposizioni sull’accesso. Per ogni posto vuoto di dotazione organica le giunte hanno a disposizione, ovviamente entro gli ambiti posti dalla norma (vedi ad del titolo di studio della scuola dell’obbligo, cioè liste di collocamento, e per le categorie speciali) e le indicazioni regolamentari, una serie di possibilità:

  • concorso pubblico;
  • concorso pubblico con quota riservata agli interni;
  • corso concorso pubblico;
  • progressione verticale;
  • concorso interno per profili acquisibili unicamente all’interno dell’ente.

Una dichiarazione congiunta allegata al CCNL 22 gennaio 2004 ci ricorda che tutte le forme di selezione riservata agli interni comunque denominate devono essere ricondotte alle regole contrattuali sulle progressioni verticali. Tale dichiarazione deve essere letta sulla base della interpretazione delle Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione che, in considerazione della natura concorsuale delle selezioni interne, attribuiscono alla competenza del giudice amministrativo il contenzioso su tali forme di selezione.

L’indicare una differenza tra progressione verticale e concorso interno per profili acquisibili unicamente all’interno dell’ente continua ad avere rilievo ai fini della individuazione dei posti che l’ente può riservare a progressioni verticali, in particolare per ciò che riguarda il loro dimensionamento rispetto alle assunzioni dall’esterno.

Da sottolineare, in particolare, la necessità di articolare in modo razionale ed equilibrato la scelta tra selezione dall’esterno e progressione verticale, cioè valorizzazione di un percorso professionale interno all’ente. Nonché la ampia autonomia di cui gli enti possono godere nella individuazione dei criteri per la selezione delle progressioni verticali.

E’ evidente che ogni comune può rapportarsi alle novità come:

  1. un adempimento dovuto e che introduce solo grane e rischi, ad esempio in termini di responsabilità per i dirigenti/responsabili, e di consenso per gli amministratori;
  2. uno strumento da utilizzare solo dinanzi a forti pressioni sindacali o dei dipendenti;
  3. una importante opportunità di sviluppo dell’ente, nella consapevolezza che la valorizzazione delle risorse umane ed un percorso organico di crescita professionale costituisca una importantissima leva per il miglioramento della qualità dei servizi.

E’ evidente che solo un approccio teso a valorizzare le opportunità aperte dalla legislazione e dal contratto può risultare “vincente”.

Ma questo significa, per ogni ente:

  • acquisire specifiche professionalità;
  • darsi un progetto unitario.

E significa, anche, non limitarsi a gestire l’esistente o a fare un puro conto di compatibilità economiche rispetto a scelte strategiche avanzate da altri soggetti, ad esempio dalle organizzazioni sindacali, che assumono obiettivi, interessi e premesse ovviamente del tutto diverse.

 

CAPITOLO 6: I VINCOLI DELLA LEGGE FINANZIARIA 2006

IL CARATTERE DELLE DISPOSIZIONI

Una drastica riduzione è imposta dalla legge n. 266/2005 alle spese per il personale delle regioni e degli enti locali. Siamo dinanzi ad un complesso di disposizioni che aumentano in misura assai significativa i vincoli posti alla gestione delle risorse umane: per la prima volta vengono infatti indicati tetti minimi di risparmio che devono essere conseguiti. E vengono ribaditi vincoli di tipo formale e procedurale che si aggiungono a quelli già esistenti sulla base delle ultime leggi finanziarie, basta ricordare le forti limitazioni alle assunzioni a tempo indeterminato che, a causa della mancata emanazione del DPCM previsto dalla legge n. 311/2004, hanno di fatto impedito l’accesso di nuovo personale nell’anno 2005 e continueranno ad impedirle per i primi mesi del 2006.

Emerge con molta evidenza la scelta del legislatore nazionale di intervenire con l’accetta sul versante della spesa del personale degli enti locali. Una scelta che appare ispirata da ragioni politiche complessive, essa si inserisce nell’ambito della logica che complessivamente ispira la manovra 2006 e che è assai dura con regioni, province, comunità montane e, in misura ancora maggiore, comuni. La scelta di imporre condizioni fortemente restrittive per il personale degli enti locali non può essere spiegata in altro modo: i possibili risparmi che le singole amministrazioni possono realizzare, in particolare nella applicazione dei contratti collettivi nazionali di lavoro, non giustificano la rigidità delle disposizioni. A tale scelta hanno sicuramente concorso, paradossalmente, le sentenze della Corte Costituzionale, sentenze che hanno bacchettato in particolare le leggi finanziarie 2003 e 2004 sul versante delle limitazioni alle assunzioni a tempo indeterminato ed il DL cd tagliaspese per gli incarichi di collaborazione. Sembra quasi che esse abbiano spinto il legislatore a modificare le tecniche di intervento, rendendole più dure, per garantire il raggiungimento degli scopi prefissati. Ed infatti la legge n. 311/2004 ha “aggirato” i vincoli posti dalla Corte Costituzionale aumentando la quantità di risparmi che le amministrazioni devono raggiungere attraverso la limitazione delle assunzioni a tempo indeterminato e la legge n. 266/2006 ha aggirato il divieto di imporre limiti al conferimento di incarichi di collaborazione stabilendo che essi rientrano nell’ambito della spesa per il personale e che questa debba essere significativamente ridotta.

Si deve subito sottolineare un ulteriore elemento contenuto nella legge finanziaria e che deve essere giudicato negativamente: non vi sono distinzioni di sorta tra le singole amministrazioni. Cosicchè tutti gli enti, a prescindere dal numero di dipendenti in servizio, dalla incidenza della spesa per il personale su quella corrente, dalla incidenza degli oneri per la contrattazione decentrata su quelli per il personale e dai trend di spesa degli ultimi anni, vengono trattati nello stesso modo. Non si dispone nessuna deroga neppure per il gran numero di piccoli comuni, realtà in cui la introduzione di vincoli rigidi rischia di determinare condizioni di difficoltà spesso non superabili. Perfino la valutazione se l’ente abbia o meno rispettato il patto di stabilità passa in secondo piano: nella finanziaria 2006 si ribadisce unicamente il divieto, già contenuto nelle disposizioni degli anni precedenti, per le amministrazioni che non hanno rispettato il patto di stabilità di effettuare assunzioni di personale a qualsiasi titolo, sia a tempo indeterminato, che determinato, nonché di stipulare contratti di collaborazione coordinata e continuativa. Eppure, sulla base dei dati contenuti nei conti annuali del personale, è possibile estrapolare queste informazioni ed avere quindi la base su cui dare seguito a scelte più differenziate. Purtroppo la assenza di politiche veramente selettive e che premino le amministrazioni che hanno bene operato sembra costituire una sorta di costante per il nostro legislatore.

Neppure la scelta di consentire alle amministrazioni di potere incidere sulla consistenza dei fondi per i contratti decentrati sembra foriera di esiti positivi. Per una parte siamo sicuramente dinanzi ad utili disposizioni interpretative, ma per la parte maggiore siamo dinanzi a condizioni di aspre tensioni che potrebbero determinarsi a fronte di risparmi concreti poco rilevanti che gli enti possono conseguire.

Alquanto discutibile appare la disposizione che consente di utilizzare a fini di riduzione del costo del personale il contenimento delle spese per le indennità degli amministratori.

Un dato di fondo che occorre mettere in evidenza è che la legge n. 266/2005 continua ad essere ispirata dalla logica di ridurre il numero dei dipendenti degli enti locali. Siamo dinanzi ad un dato che appare ormai come una costante nella legislazione degli anni 2000 e che comincia a dare i primi frutti consistenti, visto che la quantità di personale in servizio a tempo indeterminato negli enti locali, nonostante l’aumento delle funzioni amministrative a seguito dei processi di decentramento, è in calo. In questa occasione il legislatore ha introdotto, nei fatti, un ulteriore vincolo: si introducono limitazioni anche alle assunzioni a tempo determinato ed al ricorso alle collaborazioni coordinate e continuative. Cioè agli strumenti che le amministrazioni hanno utilizzato, spesso forzandone il carattere, per fare fronte alle proprie esigenze. I fatti ci diranno se il complesso degli enti locali sarà in condizione di fare fronte a questo significativo dimagrimento che viene ad essi imposto, per la prima volta anche sul versante del ricorso alle forme di flessibilità, con iniziative positive, ad esempio spingendo in direzione della gestione associata, ovvero se si determineranno situazioni di rottura. Ancora una volta si deve segnalare che, su questo versante, le condizioni di maggiore rischio incombono sui piccoli comuni, che hanno una struttura assai rigida.

Una ultima considerazione di carattere generale riguarda il carattere di queste disposizioni. Siamo dinanzi a norme che, la legge finanziaria lo ripete più volte, sono dettate per esigenze di coordinamento della finanza pubblica e per garantire il concorso degli enti locali e delle regioni al rispetto del patto di stabilità. Dunque dinanzi a materie riservate alla competenza legislativa statale ed a norme che hanno un carattere immediatamente vincolante per tutti gli enti. La legge finanziaria prevede la introduzione di specifici meccanismi di monitoraggio e di controllo. Ma si deve anche evidenziare, senza che ciò suoni come una sorta di licenza a trasgredire le previsioni legislative, che non sono previste specifiche sanzioni per le amministrazioni che non adempiono al vincolo della riduzione della spesa per il personale di almeno l’1%, al di là delle previsioni di carattere generale.

IL CONTENIMENTO DELLA SPESA PER IL PERSONALE

La disposizione di maggiore rilievo, che ha peraltro un carattere innovativo rispetto al passato, è contenuta nel comma 198 dell’articolo unico della legge n. 266/2005. Essa impone alle amministrazioni regionali, agli enti locali ed agli enti del servizio sanitario nazionale di contenere il costo del personale entro il tetto della spesa 2004 diminuita dello 1%. Tale risultato deve essere conseguito tanto nel 2006 che nel 2007 che nel 2008. Nel novero delle spese per il personale occorre considerare anche gli oneri derivanti dalle assunzioni con forme flessibili e dalle collaborazioni coordinate e continuative.

Essa viene dettate per esigenze di concorso “alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica” e questa disposizione, così come tutte le altre per il personale, costituisce, ci dice il comma 206, un principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica, per cui la competenza legislativa appartiene allo Stato. Siamo dinanzi alla spiegazione delle ragioni per le quali il legislatore nazionale si considera pienamente abilitato a potere dettare disposizioni su questa materia.

 

Gli enti interessati

Vediamo adesso di analizzare la disposizione nei suoi principali aspetti. La norma stabilisce in primo luogo l’ambito di applicazione con riguardo agli enti interessati. Innanzitutto deve essere ricordata la scelta di non prevedere alcuna distinzione tra le amministrazioni soggette al patto di stabilità e quelle che non lo sono. La norma si applica, infatti, a prescindere da tale elemento, per cui anche i comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti e le comunità montane con popolazione inferiore a 50.000 abitanti.

Non si pongono problemi interpretativi per le regioni e per gli enti del servizio sanitario nazionale. E si precisa che come enti locali ci si deve riferire alle amministrazioni di cui all’articolo 2, commi 1 e 2, del DLgs n. 267/2000. Siamo quindi dinanzi ad una elencazione assai precisa che considera i comuni, le province, le comunità montane, le unioni dei comuni, le comunità isolane ed i consorzi che lo stesso articolo considera come enti locali. Comunque permangono a riguardo alcuni dubbi da chiarire.

Un primo riguarda il rapporto tra questa disposizione e gli enti che sono compresi nell’ambito del comparto regioni ed enti locali, ambito che comprende, tra gli altri, anche le Camere di Commercio, le Ipab, le autorità d’ambito, l’Agenzia dei segretari, la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione Locale etc. Un secondo dubbio riguarda gli enti che costituiscono una articolazione delle regioni o una loro promanazione o che sono strumentali rispetto ad esse.

La norma prescrive testualmente che gli enti locali siano chiamati a “garantire che le spese di personale … non superino per ciascuno degli anni 2006, 2007 e 2008 il corrispondente ammontare dell’anno 2004 diminuito dell’1%”. A parere di ci scrive tale disposizione si deve interpretare nel senso che il tetto della spesa 2004 diminuito dell’1% deve essere confermato per ognuno dei tre anni considerati dalla norma e non nel senso che in ognuno di tali tre anni si debba procedere ad una riduzione dell’1%, cosicchè nel complesso del triennio il calo sarebbe, grosso modo, pari al 3%. Al termine del triennio, così come al termine di ognuno degli anni che lo compongono, il tetto di spesa delle singole amministrazioni deve essere quello del 2004 ridotto dello 1%.

La norma prescrive che il calcolo debba essere effettuato “al lordo degli oneri riflessi a carico delle amministrazioni e dell’Irap”. La disposizione è utile in via interpretativa ed applicativa, evitando che possano maturare differenze tra le singole amministrazioni nelle modalità di applicazione. Essa è al momento neutra per gli enti, ma potrebbe determinare effetti di ulteriore appesantimento se il legislatore decidesse di innalzare le aliquote degli oneri riflessi e/o dell’Irap, scelta che peraltro sembra potere essere iscritta nell’ambito delle possibilità, in particolare per ciò che riguarda le collaborazioni coordinate e continuative.

Il risparmio della spesa di personale conseguito dalle amministrazioni locali e dalle regioni a seguito della applicazione delle disposizioni della legge finanziaria, sulla base delle previsioni dettate dal comma 205, rimane acquisito al bilancio delle singole amministrazioni “ai fini del miglioramento dei relativi saldi”. Rimane cioè nelle disponibilità di bilancio.

 

L’ambito di applicazione

Una delle disposizioni più innovative, e che è destinata a creare non pochi problemi per molte amministrazioni, in particolare per i comuni e gli altri enti locali di più ridotte dimensioni demografiche e con una minore consistenza organizzativa, prevede che nell’ambito della spesa del personale da assumere come punto di riferimento per i risparmi da conseguire debbano essere compresi, in aggiunta alla spesa per il personale dipendente a tempo indeterminato, anche gli oneri derivanti da: assunzioni di personale a tempo determinato, contratti di collaborazione coordinata e continuativa e personale che “presta servizio con altre forme di rapporto di lavoro flessibile o con convenzioni”. Siamo dinanzi alla chiara volontà di costringere le amministrazioni a ridurre il volume delle spese destinate al personale assunto con forme di assunzioni flessibili. Ed è questo un elemento che segna una chiara inversione di rotta rispetto alle scelte contenute, quanto meno in via di fatto, nelle leggi finanziarie degli anni precedenti, scelte che hanno fortemente limitato le possibilità di assunzioni di personale a tempo indeterminato, mentre non hanno posto limiti al ricorso alle forme di assunzione flessibile, salvo che per gli enti che non hanno rispettato il patto di stabilità. Disposizioni che si giustificavano sulla base della logica del contenimento delle spese che hanno un carattere sostanzialmente rigido a vantaggio di quelle che hanno un carattere flessibile. Con le disposizioni dettate dalla legge n. 266/2005 tale strada viene invece abbandonata e ci si limita a porre in modo molto rigido il tetto di spesa. Ricordiamo che, salvo questa ulteriore limitazioni alle possibilità di assunzione che è data dalla legge finanziaria 2005, non vi sono differenze tra gli enti che hanno rispettato il patto di stabilità e quelli che non lo hanno rispettato.

Occorre a questo punto chiarire in modo preciso cosa si debba intendere esattamente per assunzioni flessibili. E’ chiaro che per assunzioni a tempo determinato ci si deve riferire a quelle che sono previste dal DLgs n. 368/2001. Un primo punto da chiarire riguarda la possibile esclusione delle assunzioni a tempo determinato che hanno una natura sostitutiva del personale dipendente a tempo indeterminato ed assente: tale interpretazione consentirebbe di evitare i maggiori problemi che la disposizione rischia di determinare per i piccoli comuni. Siamo comunque dinanzi ad una richiesta avanzata dall’Anci che non è stata accolta dal Ministero dell’Economia e delle Finanze.

Per le collaborazioni coordinate e continuative ci si deve riferire a quelle che sono espressamente qualificate come tali dalle parti contraenti e che, come ci ha ricordato la Corte dei Conti con la deliberazione n. 5/contr/05 di interpretazione delle disposizioni dettate dalla legge n. 311/2004, finanziaria 2005, si devono intendere riferite a quelle che hanno una natura sostanziale di questo tipo, oltre che la veste formale.

Poco chiara appare la nozione di “convenzioni”, in particolare per gli enti locali, ambito anch’esso ricompreso tra quelli interessati dalla limitazione, ma si deve ricordare che questa nozione è presente anche nelle precedenti leggi finanziarie e che appare evidente il suo carattere di “norma di chiusura”. Sembrano comunque compresi in tale ambito gli oneri che derivano dalla stipula di convenzioni con altre amministrazioni per la gestione associata di servizi e funzioni. In tal senso va anche l’interpretazione del Ministero dell’Economia.

Per la determinazione di tale spesa vanno sottratti i costi che le singole amministrazioni ricevono come rimborsi da quelle che utilizzano tali servizi, costi che invece queste amministrazioni devono comprendere tra le loro voci di spesa. Sembra inoltre che debbano essere compresi anche i costi che i comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, le unioni di comuni, le comunità montane ed i consorzi sopportano per la utilizzazione di personale dipendente da altri enti locali in applicazione delle disposizioni dettate dal comma 557 della legge n. 311/2004.

Occorre invece chiarire a cosa ci si riferisce con la nozione di “altre forme di rapporto di lavoro flessibile”. Sembra apparire un richiamo alle previsioni contenute nelle leggi n. 196/1997, cd legge Treu, per le parti ancora in vita, ed al DLgs n. 276/2003, norma di attuazione della cd legge Biagi. In particolare occorre chiarire se la disposizione si riferisce al contratto di somministrazione a tempo determinato che le PA possono utilizzare in luogo del lavoro interinale, le cui disposizioni contenute nei primi 11 articoli della legge Treu sono state abrogate. Siamo dinanzi ad uno “strappo” di notevole rilevanza sul piano dei principi, ma sembra che la volontà del legislatore si sia indirizzata in tale direzione e che di ciò non si possa, in questa fase, che prendere atto. Per i contratti di formazione e lavoro appare evidente che anch’essi sono da considerare compresi in tale ambito, ricordando peraltro che la legge n. 266/2005 detta per essi specifiche limitazioni alla possibilità di trasformazione in rapporti di lavoro a tempo indeterminato, con disposizioni che riprendono quelle contenute nelle ultime leggi finanziarie e che la Ragioneria Generale dello Stato esclude dal conteggio gli oneri relativi alle proroghe. Si deve inoltre ritenere che le prescrizioni si riferiscano anche alle utilizzazioni in comando ed in distacco.

Un punto su cui il legislatore non si esprime è quello degli oneri derivanti dalle assunzioni di dirigenti e/o di responsabili disposto sulla base delle previsioni dettate dall’articolo 110 del DLgs n. 267/2000. Ricordiamo che tale disposizione prevede espressamente la possibilità per gli enti di coprire i posti vuoti in dotazione organica di dirigenti e/o di responsabili ed extra dotazione organica entro il limite del 5% della dotazione organica dei dirigenti o, nelle amministrazioni che ne sono sprovviste, della dotazione organica dell’ente e comunque per almeno una unità. E che tali oneri sono dalla disposizione del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali espressamente esclusi dalle spese per il personale. Questa disposizione risale alla legge n. 127/1997 ed inizialmente era limitata solo alle assunzioni extra dotazioni organiche: è stata estesa a tutte le assunzioni a tempo determinato di dirigenti e/o di responsabili dal DLgs n. 267/2000. Essa è nata dalla volontà di escludere questo tipo di oneri dal calcolo della spesa del personale perché in quella fase il superare questa voce il 50% del complesso delle spese correnti determinava il maturare di uno degli elementi che portavano alla dichiarazione dell’ente come strutturalmente deficitario. Dobbiamo inoltre ricordare come negli ultimi anni si sia più volte dubitato della applicabilità di questa disposizione, ma appare evidente che la norma esiste, che non è stata abrogata e che dunque deve essere applicata. Da ciò sembra derivare, a parere di chi scrive, la conseguenza che non sono da comprendere tra le spese del personale quelle per le assunzioni a tempo determinato di dirigenti e/o responsabili disposte dall’ente sulla base dell’articolo 110 del DLgs n. 267/2000. In senso completamente contrario si è espressa la Ragioneria Generale dello Stato.

 

Il calcolo della spesa

Il comma 199 della legge n. 266/2005, finanziaria 2006, detta i criteri per il calcolo della spesa del personale ai fini della riduzione dell’1%. Vanno esclusi, ma esclusivamente ai fini previsti dalla norma, gli oneri determinati nel 2004 dagli arretrati derivanti dal rinnovo dei contratti collettivi nazionali di lavoro e gli oneri che saranno determinati nel prossimo triennio dalla applicazione dei nuovi contratti collettivi nazionali di lavoro. Il testo definitivo non ha invece escluso gli oneri derivanti dalle nuove assunzioni a tempo indeterminato autorizzate dall’emanando DPCM.

Occorre quindi scorporare, per le regioni e gli enti locali, dal costo del personale del 2004 le parti relative alla applicazione del CCNL 22.1.20004 per ciò che riguarda gli arretrati riferiti agli anni 2002 e 2003. Arretrati riferiti sia agli aumenti tabellari, che a tutte le varie tranches della indennità di comparto, che agli effetti determinati per gli anni precedenti dall’aumento del trattamento tabellare su altri istituti ad esso strettamente collegati (ad esempio lo straordinario etc). Occorre invece considerare gli effetti determinati dal rinnovo del contratto per l’anno 2004.

Non devono inoltre essere considerati i costi derivanti dalla applicazione dei nuovi contratti collettivi nazionali di lavoro che interverranno negli anni 2006, 2007 e 2008. Contratti che dovrebbero essere i seguenti per le regioni e per gli enti locali:

  • per il personale: bienni economici 2004 e 2005; 2006 e 2007 ed infine 2008/2009;
  • per i dirigenti: bienni economici 2002 e 2003; 2004 e 2005; 2006 e 2007 e 2008/2009.

 

Le modalità per ottenere i risparmi

Per conseguire i risparmi previsti, la legge n. 266/2005 detta un insieme di previsioni che non hanno un carattere vincolante, ma che si pongono sul piano delle indicazioni di principio. Si deve sottolineare che le previsioni sui risparmi contrattuali hanno invece un carattere vincolante per le amministrazioni statali.

Occorre in primo luogo considerare i risparmi che derivano dalle cessazioni di personale, a qualunque titolo esse avvengano, risparmi che occorre calcolare a fronte dei maggiori oneri che deriveranno dalle limitate possibilità di assunzioni a tempo indeterminato consentite. In tale ambito sono, ad avviso di chi scrive, da calcolare anche le esternalizzazioni di personale a seguito della esternalizzazione/privatizzazione della gestione di specifici servizi. Vanno inoltre sicuramente comprese le mobilità in uscita. Non concorrono i risparmi teorici che sono garantiti dalle rideterminazioni delle dotazioni organiche.

La prima possibilità è prevista dalla stessa legge: destinare a tal fine i risparmi che l’ente può conseguire attraverso la riduzione dei compensi agli amministratori. Non è chiaro nella disposizione se queste risorse derivano dal taglio del 10% che le amministrazioni devono effettuare obbligatoriamente sulla base delle previsioni dettate dalla stessa norma ovvero se ci si riferisce a tagli ulteriori. In senso negativo si pronuncia la Ragioneria Generale dello Stato.

Una ulteriore possibilità è quella di limitare le assunzioni a tempo determinato, con convenzioni ed il ricorso alle collaborazioni coordinate e continuative. Ricordiamo che per le amministrazioni statali vige il vincolo che la spesa per queste voci non deve superare quella del 2003 ridotta del 40%. Da sottolineare che per queste amministrazioni non è previsto il calcolo del personale assunto con altre forme di assunzione flessibile, forse perché i dati indicano un uso assai ridotto a questo strumento da parte delle amministrazioni centrali.

Si pone subito il problema degli enti che hanno in corso contratti con personale dipendente a tempo determinato e contratti di collaborazione coordinata e continuativa o altre forme di assunzioni flessibili. Sembra evidente che le amministrazioni che hanno rispettato il patto di stabilità non possano disporre la risoluzione anticipata di tali rapporti in omaggio al principio per cui tali rapporti sono legittimi, essendo stati stipulati in assenza di vincoli a questo tipo di spesa. Manca peraltro ogni espressa indicazione legislativa in questo senso ed è evidente che ciò è assolutamente necessaria, come peraltro già ritenuto dalla stessa legge finanziaria nel momento in cui detta su altri temi, ad esempio le locazioni di immobili, dei vincoli che modificano i rapporti contrattuali in essere. E’ evidente pertanto che queste amministrazioni dovranno verificare la possibilità di ottenere il risparmio dell’1% esclusivamente operando sulle altre voci di spesa previste dalla legge finanziaria, ovviamente per quanto possibile. D’altronde è evidente che la previsione per cui, nel caso in cui le amministrazioni statali superino il tetto della riduzione della spesa per le assunzioni a tempo determinato, con convenzioni e delle collaborazioni coordinate e continuative, si determina un illecito disciplinare non si applica agli enti locali. Ed ancora la previsione che essa determina una responsabilità erariale costituisce una previsione valida per il futuro e non per i rapporti già in essere.

 

I risparmi contrattuali

La legge finanziaria detta una serie di disposizioni perché le amministrazioni possano conseguire dei risparmi sul versante della spesa derivante dai contratti nazionali e da quelli decentrati. Tali norme hanno un carattere vincolante per le amministrazioni statali e, per esplicito richiamo del legislatore, possono essere utilizzate anche dagli enti locali.

La prima indicazione è dettata dal comma 189, che prevede che “a decorrere dall’anno 2006 l’ammontare complessivo dei fondi per il finanziamento della contrattazione integrativa … determinato ai sensi delle rispettive normative contrattuali, non può eccedere quello previsto per l’anno 2004, come certificato dagli organi di controllo”. Il successivo comma 190 dispone che non si possano costituire i fondi in assenza di certificazione da parte degli organi di controllo della compatibilità economica dei fondi per il biennio precedente. Ed inoltre il comma 191 prescrive che “l’ammontare complessivo dei fondi può essere incrementato degli importi fissi previsti dai contratti collettivi nazionali che non risultino già confluiti nei fondi dell’anno 2004”. Ed inoltre il comma 192 impone che “le eventuali risorse aggiuntive devono coprire tutti gli oneri accessori, ivi compresi quelli a carico delle amministrazioni, anche se di pertinenza di altri capitoli di spesa”. Il comma 193 prescrive che il finanziamento delle progressioni orizzontali deve essere assicurato dai fondi per la contrattazione fino alla data di cessazione dal servizio o di progressione verticale. Il comma 194 impegna le amministrazioni a tenere conto dei processi di rideterminazione delle dotazioni organiche e degli effetti delle limitazioni delle assunzioni a tempo indeterminato ai fini del finanziamento della contrattazione integrativa. Il comma 195 prescrive che i risparmi costituiscono economie di bilancio e non possono essere utilizzate per incrementare i fondi per la contrattazione integrativa. Il comma 197 dispone la possibilità di ridurre la spesa per lo straordinario del 10% rispetto all’anno 2004. Si deve chiarire se questa disposizione sia applicabile anche agli enti locali, conseguenza che sembra derivare dalla lettera della legge finanziaria. Ma le norme contrattuali rendono inutilizzabile tale possibilità disponendo che tali risparmi siano comunque utilizzati per incrementare il fondo per le risorse decentrate.

Siamo dinanzi ad un insieme di prescrizioni legislative che hanno un carattere assai vincolante per le amministrazioni statali e che possono essere utilizzate da parte degli enti locali: in tal senso va la esplicita previsione dettata dal comma 200 ed il cui ambito di applicazione deve essere precisato.

Il primo elemento da chiarire riguarda il rapporto tra il fondo 2006 per la contrattazione decentrata e quello 2004. Appare evidente che le amministrazioni locali possano prevedere la limitazione del suo importo a quello del fondo 2004. Siamo dinanzi ad una prescrizione che può determinare la conseguenza concreta di non dare corso agli incrementi previsti dall’articolo 15, comma 5, del CCNL 1.4.1999, cioè quelli collegati all’ampliamento dei servizi esistenti o alla realizzazione di nuovi servizi senza la assunzione di nuovi dipendenti. Consideriamo che la integrazione del fondo, parte stabile, operata sulla base dell’articolo 15, comma 5, del CCNL 1.4.1999 in considerazione dell’aumento della dotazione organica e del numero dei dipendenti in servizio costituisce una ipotesi ormai teorica, visto che un aumento del numero dei dipendenti può essere realizzato unicamente attraverso la mobilità volontaria.

La disposizione dettata dal comma 191 deve essere intesa, a parere di chi scrive, nel senso che gli incrementi del fondo disposti da ogni tornata di rinnovo contrattuale non devono essere aumentati nel corso degli anni, ma che occorre limitarsi annualmente a riproporli. Per cui, ad esempio, l’incremento dello 1,1% disposto dal contratto del biennio economico 2001/2002 deve essere disposto dalla data di entrata in vigore della norma e ripetuto annualmente nello stesso importo, mentre è da considerare illegittimo (ricordiamo che in tal senso andavano già le indicazioni dell’Aran) la scelta di aumentare ogni anno l’importo del fondo dell’anno precedente nella misura dello 1,1%, per cui l’importo del fondo stesso cresce anche in assenza di rinnovi contrattuali.

Un secondo punto riguarda le modalità di calcolo delle “eventuali risorse aggiuntive” dei fondi per la contrattazione decentrata: esse devono coprire tutti gli oneri accessori a carico delle singole amministrazioni. La norma sembra prevedere, in altri termini, che queste risorse debbano essere calcolate al lordo degli oneri riflessi a carico dei singoli enti, con ciò determinando una misura di contenimento della loro effettiva dimensione.

Le prescrizioni sul finanziamento della spesa per le progressioni orizzontali esclusivamente con le risorse del fondo per le risorse decentrate, negli enti locali per l’esattezza della parte stabile di tale fondo, fino a che il dipendente non cessi dal servizio o non sia interessato da progressione verticale, non costituisce un elemento di novità. In questa stessa direzione si è infatti espressa da sempre l’Aran.

Una disposizione assolutamente innovativa è quella che prevede che gli enti, nella determinazione del fondo per le risorse decentrate, tengano conto dei processi di rideterminazione delle dotazioni organiche e degli effetti della limitazione delle assunzioni a tempo indeterminato. Tale disposizione sembra consentire alle singole amministrazioni di tenere conto nel calcolo del fondo della contrazione degli organici e di quella del personale effettivamente in servizio, con ciò procedendo alla diminuzione del suo ammontare. Possibilità che non era consentita in precedenza, visto che le norme contrattuali non prevedono affatto la riduzione in diminuzione dei fondi e che essa si è fin qui realizzata unicamente nel caso del trasferimento del personale Ata dagli enti locali allo Stato, ma in questo caso solo a seguito della contestuale riduzione dei trasferimenti erariali. L’ambito di applicazione di tale previsione è comunque circoscritta a seguito della circolare n. 9/2006 del Ministero dell’Economia.

La utilizzabilità di queste norme, dal che possono ovviamente scaturire contenziosi applicativi, è da ritenere attualmente rimessa alle valutazioni autonome da parte dei singoli enti, visto che la costituzione del fondo non costituisce materia rimessa alla contrattazione integrativa decentrata.

Il comma 201 prevede che siano destinate alla riduzione della spesa per il personale i risparmi che derivano dalla riduzione del costo di funzionamento degli organi istituzionali attraverso la riduzione delle indennità di carica e dei gettoni di presenza. Occorre chiarire se questa disposizione si riferisca solo ad ulteriori decrementi rispetto alla riduzione obbligatoria prevista dalla stessa legge finanziaria ovvero se essa si riferisca anche a questa voce. E’ questo un punto di notevole rilievo che merita di essere chiarito in modo preciso perché la lettera della disposizione sembra consentire tale interpretazione, che è invece negata dalla Ragioneria Generale dello Stato.

 

Il monitoraggio ed il controllo

Per la verifica ed il monitoraggio del rispetto delle previsioni legislative che impongono alle amministrazioni di conseguire il risparmio di almeno l’1% sulla spesa per il personale 2006 rispetto a quella del 2004 la legge finanziaria detta un insieme di prescrizioni specifiche. In particolare, si prevedono forme specifiche di monitoraggio del suo rispetto. Per le regioni, le province, i comuni con popolazione superiore a 30.000 abitanti e le comunità montane con popolazione superiori a 50.000 abitanti si prevede che esso sia effettuato attraverso gli strumenti previsti dalla legge finanziaria 2005 per la verifica del rispetto del patto di stabilità, cioè attraverso l’apposito sito web della Ragioneria Generale dello Stato. Per gli altri enti locali il monitoraggio dovrà essere realizzato attraverso la apposita certificazione sottoscritta dall’organo di revisione contabile da inviare entro i 60 giorni successivi alla chiusura dell’esercizio finanziario. Per gli enti del servizio sanitario nazionale la verifica degli effetti viene effettuata nell’ambito del tavolo tecnico previsto per la verifica del rispetto del contenuto dell’intesa tra Stato e regioni.

A questo punto è utile ricordare che il rispetto del principio della riduzione dell’1% del costo del personale costituisce sicuramente una norma imperativa per gli enti locali, ma che nel contempo mancano specifiche sanzioni. Infatti, le disposizioni ci ricordano che, come abbiamo prima visto, siamo dinanzi ad un principio dettato per esigenze di coordinamento della finanza pubblica e che, pertanto, è immediatamente applicabile anche agli enti locali. E che sono previste misure per il monitoraggio della sua attuazione. Al più si può immaginare che i revisori dei conti potranno evidenziare questo elemento nella relazione alle sezioni regionali di controllo della Corte dei Conti se la stessa lo prevederà nell’ambito delle linee guida che è chiamata a dettare in materia e, successivamente, nell’impegno che essa richiederà ai singoli enti di adottare comportamenti tesi a raggiungere l’obiettivo della sana gestione finanziaria. Siamo cioè dinanzi a norme che mettono gli enti in una condizione di anomalia, ma che non contengono una specifica disposizione sanzionatoria. In questo senso vanno le indicazioni della Ragioneria Generale dello Stato.

 

IL RINNOVO DEI CONTRATTI

Per il rinnovo dei contratti collettivi nazionali di lavoro le disposizioni dettate dalla legge n. 266/2005 prevedono una precisa differenziazione tra quelli che deriveranno dal rinnovo del contratto per il biennio 2004/2005 e quelli che deriveranno dal contratto per il biennio 2006/2007.

 

Il biennio 2004/2005

Per il rinnovo del contratto per il biennio economico 2004/2005 si prevede i maggiori oneri per le PA centrali, quantificati in 390 milioni di euro, siano finanziati dalla stessa legge. Per il finanziamento per il personale dipendente da amministrazioni diverse da quelle statali dei maggiori oneri determinati dalla intesa raggiunta lo scorso 27 maggio 2005 tra il Governo e le organizzazioni sindacali la legge finanziaria dispone al comma 178 che essi siano posti a carico della stessa disposizione nella misura di 220 milioni di euro. Tali oneri coprono la differenza dello 0,7% esistente tra i tassi di inflazione programmata, oneri che le amministrazioni devono sostenere invece autonomamente, ed i maggiori costi che sono stati previsti da questa intesa.

Tali contributi non saranno erogati al personale dipendente dalle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e Bolzano, nonché al personale degli enti locali delle regioni Friuli e Venezia Giulia e delle province autonome di Trento e Bolzano. Cioè al personale delle realtà istituzionali per le quali sono previsti livelli autonomi di contrattazione rispetto a quelli nazionali.

Per le stesse finalità è previsto che anche i maggiori oneri derivanti dal rinnovo del contratto 2004/2005 per il personale del servizio sanitario nazionale, quantificati in 213 milioni di euro siano sostenuti direttamente dallo Stato ed erogati, ai sensi del comma 182, come finanziamenti aggiuntivi per la spesa sanitaria.

Siamo dinanzi, come evidenzia lo stesso testo della legge n. 266/2005, dinanzi ad una deroga rispetto ai principi di carattere generale posti dalle norme contenute nel DLgs n. 165/2001.

La ripartizione concreta di tali risorse tra le singole amministrazioni sarà effettuata sulla base di uno specifico decreto del Ministero dell’economia e delle finanze, adottato d’intesa con quello della funzione pubblica. Esso dovrà essere emanato entro la fine del mese di giugno, cioè entro i 180 giorni successivi alla entrata in vigore della legge n. 266/2005. Ovviamente la sua applicazione è subordinata alla stipula dei contratti collettivi nazionali per il biennio 2004/2005.

 

Il biennio 2006/2007

Per i rinnovi dei contratti per il biennio economico 2006/2007 si ritorna invece alle regole di carattere generale contenute nel DLgs n. 165/2001 e ripetute in tutte le ultime leggi finanziarie. Essi sono quantificati direttamente dalla legge n. 266/2005 per il personale dipendente dallo Stato: la misura è pari al tasso di inflazione programmato ed in valore assoluto a 222 milioni di euro per il 2006 e 322 milioni di euro per il 2007. Tale valore viene assunto come tetto massimo per il rinnovo dei contratti del personale dipendente dalle amministrazioni non statali. Ed in questo senso il comma 186 impegna direttamente i comitati di settore ad emanare le opportune direttive all’Aran. Il comma 186 detta una previsione innovativa: i comitati di settore, nella formazione della direttiva che indica il tetto di spesa, devono avvalersi dei dati disponibili presso il Ministero dell’economia e delle finanze, dati che sono elaborati sulla base delle informazioni contenute nei conti annuali del personale e che ci danno il quadro effettivo e complessivo, un quadro da cui molto spesso si deve ricavare la considerazione che la applicazione dei contratti risulta molto più onerosa delle previsioni nel suo andamento effettivo e che il costo del personale è incrementato da scelte deliberate autonomamente dalle amministrazioni (ad esempio progressioni orizzontali e verticali, incremento del fondo). Viene inoltre confermato che il finanziamento di questi oneri è posto direttamente ed integralmente a carico delle singole amministrazioni.

Tutti i comuni, le province e le comunità montane devono prevedere nei propri bilanci preventivi 2006 e nel bilancio pluriennale per l’anno 2007 un aumento delle spese per il personale per l’applicazione del nuovo contratto, aumento che va al di là della riduzione prevista dalla stessa legge finanziaria 2006, in misura pari al tasso di inflazione programmato. Tale adempimento è da giudicare come vincolato sulla base del principio della veridicità delle cifre contenute nei bilanci ed è quanto mai necessario che venga concretamente realizzato per consentire alle amministrazioni di potere erogare tali cifre nel momento in cui il contratto sarà stipulato.

E’ comune tanto ai maggiori oneri derivanti dal rinnovo dei contratti del biennio economico 2004/2005 che a quelli derivanti dal rinnovo dei contratti del biennio economico 2006/2007 la regola sulla inclusione in tali oneri anche degli oneri contributivi e dell’Irap per le quote che sono a carico delle singole amministrazioni. Siamo dinanzi ad una norma che ha un carattere ripetitivo, essendo contenuta in tutte le ultime leggi finanziarie. Essa è comunque importante sul terreno interpretativo della composizione del fondo per le risorse decentrate.

GLI INCARICHI DI CONSULENZA

La legge n. 266/2005, facendo tesoro dei principi fissati dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 417/2005 ha cancellato i vincoli posti direttamente ed imperativamente dal legislatore nazionale al conferimento di incarichi di collaborazione, studio e ricerca. Infatti è espressamente previsto che non si applichino a regioni, enti locali ed enti del servizio sanitario nazionali i tetti al conferimento di nuovi incarichi di consulenza, studio e ricerca. E che a tali enti non si applichino neppure i vincoli posti dalla legge per la rideterminazione in diminuzione dei compensi in essere. Si deve, su questa base, trarre la conclusione che alle regioni, agli enti locali ed a quelli del servizio sanitario nazionale non si applichi neppure l’obbligo di inviare alla Corte dei Conti, sezione di controllo, gli atti con cui si conferiscono incarichi di consulenza di importo superiore a 5.000 euro.

Ovviamente gli enti locali possono utilizzare queste disposizioni, con valenza per il futuro e non certo retroattiva.

La assenza di norme vincolanti in tema di conferimento di incarichi di consulenza, studio e ricerca, nonché di nuove forme di controllo, non fa certo venire meno i vincoli posti a questo istituto dalla giurisprudenza, in particolare della Corte dei Conti, dal DL n. 168/2004, cd tagliaspese e dalla legge n. 311/2004, finanziaria 2005.

Sul primo versante, buona parte delle cui indicazioni sono peraltro ribadite dal recente DL che detta disposizioni in tema di funzionalità delle PA, occorre ricordare i seguenti vincoli:

  • obbligo di motivazione, con specifico riferimento alla assenza di analoghe professionalità all’interno dell’ente, assenza che per le co.co.co può essere intesa anche in senso relativo;
  • utilizzazione di criteri predeterminati e certi di scelta del collaboratore, che deve ovviamente possedere tutti i necessari requisiti;
  • definizione del compenso in misura non esorbitante, non forfettaria e sulla base di adeguate motivazioni;
  • liquidazione del compenso solo dopo avere accertato le attività svolte ed i benefici conseguiti dall’ente.

Sulla base delle indicazioni legislative occorre, norma che non si applica ai comuni ed agli altri enti locali con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, che i provvedimenti di conferimento degli incarichi siano corredati del parere dei revisori dei conti e che siano trasmessi alla sezione regionale di controllo della Corte dei Conti.

LE ALTRE DISPOSIZIONI

La legge n. 266/2005 detta nei commi che vanno dal 207 al 230 una serie di disposizioni che prevedono altre misure di contenimento della spesa per il personale, nonché una serie di chiarimenti della interpretazione di disposizioni in vigore da tempo, norme che sono applicabili alle regioni ed agli enti locali.

Si deve sottolineare subito che il legislatore si è preoccupato di evitare, per le principali tra queste disposizioni, la possibilità che i contratti possano disporne la disapplicazione. Ricordiamo che il DLgs n. 165/2001, nel prevedere la possibilità per i CCNL di disapplicare norme di legge, espressamente prevede che il legislatore possa stabilire che una disposizione legislativa sia modificabile solo da un’altra norma che ha la stessa natura.

Non sono disapplicabili da parte dei contratti le norme sulla incentivazione del compenso per i progetti di opere pubbliche effettuate direttamente all’interno degli uffici pubblici, per il compenso degli avvocati dipendenti dall’ente, per il calcolo dell’equo indennizzo, per la abrogazione della indennità di trasferta, per la impossibilità di innalzare la misura delle indennità collegate alla posizione, per la corresponsione dell’equo indennizzo direttamente da parte delle singole PA e per il divieto delle amministrazioni di corrispondere le spese di cura ai propri dipendenti.

 

L’incentivazione della progetta interna

Viene estesa a tutti i dipendenti pubblici la norma interpretativa già in vigore per il personale degli enti locali in tema di incentivazione della progettazione di opere pubbliche effettuata direttamente all’interno degli uffici. Viene chiarito, senza alcuna ombra di dubbio, che tale forma di incentivazione è comprensiva anche degli oneri previdenziali ed assistenziali, ovviamente per le parti che sono a carico delle singole amministrazioni. Tale interpretazione, dopo notevoli oscillazioni, soprattutto in sede giurisprudenziale, era già stata introdotta per i dipendenti degli enti locali unitamente all’innalzamento al 2% del suo tetto massimo.

La norma ci ricorda chi sono i soggetti, che complessivamente entro la quota massima prevista, possono beneficiare di tale disposizione: responsabile unico del progetto, o del procedimento; incaricati della redazione del progetto, incaricati della redazione del piano della sicurezza, incaricati della direzione dei lavori, incaricati del collaudo, collaboratori di ognuna di tali figure.

Essa costituisce, espressamente, una norma di interpretazione autentica, quindi la sua efficacia è retroattiva.

 

I compensi per le avvocature

Una disposizione analoga, fin qui assente per qualunque comparto pubblico, è dettata in tema di compensi spettanti agli avvocati dipendenti delle PA. L’erogazione di tali compensi è subordinata all’essere inseriti nell’ambito della avvocatura ed a svolgere funzioni di patrocinio legale per l’amministrazione. Si precisa che tali compensi sono da considerare comprensivi degli oneri riflessi. Rileviamo che in questa occasione si usa una formula diversa rispetto a quella usata per la incentivazione delle progettazioni di opere pubbliche effettuate direttamente all’interno degli uffici, oneri previdenziali ed assistenziali; non sembra comunque che vi possano, al riguardo. essere problemi interpretativi.

La disposizione rinvia alle norme contrattuali e non fornisce nessun chiarimento sugli aspetti poco chiari di tale disciplina, in particolare per il comparto regioni ed enti locali. Essa non ha natura interpretativa e, quindi, non è applicabile retroattivamente.

 

L’equo indennizzo

Vi sono tre commi che si occupano dell’equo indennizzo. Viene, in primo luogo, stabilito che l’importo deve essere calcolato sulla base del solo stipendio tabellare: sono infatti espressamente escluse tutte le altre voci di retribuzione, anche se “hanno un carattere fisso e continuativo”.

In secondo luogo si prevede che questa norma non abbia alcuna efficacia retroattiva, quindi che essa non si applichi alle domande pendenti se sono state presentate prima della data di entrata in vigore della legge n. 266/2005, cioè dello 1 gennaio 2006.

In terzo luogo si stabilisce che la corresponsione dell’equo indennizzo sia a carico delle singole amministrazioni pubbliche, ovviamente ognuna per ciò che riguarda i propri dipendenti.

 

L’aggiornamento dei compensi

Il comma 212 prolunga per il triennio 2006/2008 la validità del divieto di adeguare a tasso di inflazione tutte le indennità, i compensi, le gratifiche, gli emolumenti, i rimborsi spesa etc. Tale disposizione era contenuta nella legge finanziaria 2003. Tale divieto si applica anche ai soggetti che hanno un rapporto con l’ente diverso da quello di lavoro dipendente.

 

L’abrogazione della indennità di trasferta

I commi 213 e 214 dispongono la sostanziale abrogazione della indennità di trasferta. Tale abrogazione viene effettuata in modo diretto ed immediato per i dipendenti dello Stato; per quelli delle altre PA essa costituisce una norma di principio a cui gli enti sono chiamati a dare attuazione nell’ambito delle propria autonomia organizzativa.

La norma si pone esplicitamente come disposizione che consente la deroga rispetto alle previsioni dei contratti collettivi nazionali di lavoro.

A tale disposizione è strettamente collegata quella contenuta nel comma 216 e che consente di rimborsare ai dipendenti pubblici unicamente il biglietto aereo di classe economica.

 

Limitazioni alle indennità

Il comma 215 prevede che le altre indennità collegate a posizioni siano confermate nella stessa misura precedente l’entrata in vigore della legge. Siamo dinanzi ad una disposizione che occorre chiarire se limitata esclusivamente alle indennità assimilabili a quelle di trasferta, ipotesi preferibile, ovvero se ha una ampiezza notevole, vista la sua sostanziale genericità: occorre chiarire, ad esempio, se da essa ne possa provenire un divieto di innalzamento da parte dei singoli enti e/o del contratto collettivo nazionale di lavoro della misura delle indennità in godimento e collegate alle posizioni rivestite, a partire da quelle per i titolari di posizione organizzativa e per i dirigenti.

Il comma 226 dispone che gli assegni ad personam che sono riconosciuti nel caso di passaggi di carriera, sulla base delle disposizioni di cui alla legge finanziaria 1994, non ricomprendano le forme di trattamento economico collegate a obiettivi o risultati, quali le indennità di risultato e la produttività. Se ne dovrebbe ricavare, a contrario, che sono da ricomprendere quelle collegate alla posizione.

 

Il divieto di sostenere le spese di cura

La legge n. 266/2005 abroga tutte le norme che ponevano in capo alle amministrazioni le spese di cura per i propri dipendenti, con le uniche eccezioni di quelle dipendenti da ragioni di servizio per le forze armate ed i corpi di polizia ed erogate dalla amministrazione della difesa. Per gli enti locali non vi sono disposizioni contrattuali che prevedevano tale possibilità, per cui siamo dinanzi ad un divieto che inibisce agli enti di adottare unilateralmente disposizioni che si muovono in tale direzione.

 

La retribuzione delle festività civili nazionali

La norma pone un riparo alla interpretazione offerta in alcune recenti sentenze che consente alle PA di remunerare le festività civili nazionali ricadenti la domenica. Fatto salvo il principio ancora in vigore del divieto della estensione dei giudicati da parte delle amministrazioni pubbliche, la norma non si estende alla esecuzione dei giudicati che si sono formati prima dello scorso 1 gennaio 2006, data di entrata in vigore della disposizione.

Essa, anche se non in modo espresso, può essere qualificata come norma interpretativa e, pertanto, dotata di efficacia retroattiva.

 

La permanenza nella prima sede dei vincitori di concorsi

Il comma 158 ripropone il divieto di trasferimento dei vincitori di concorso prima che siano decorsi 5 anni. Anche questa disposizione, per esplicita scelta legislativa, non è derogabile da parte dei contratti collettivi nazionali di lavoro.

Tale divieto si deve considerare esteso anche alle mobilità volontarie.

La norma viene inserita nell’ambito delle previsioni dettate dal DLgs n. 165/2001. Tali disposizioni valgono come norma di principio per i regolamenti che gli enti locali sono chiamati a darsi. Norma di principio che gli enti assumono nei propri regolamenti in modo autonomo.

 

Le condanne della Corte dei Conti

Viene offerta a coloro che sono stati condannati in primo grado dalla Corte dei Conti la possibilità di arrivare ad una definizione rapida del contenzioso. I soggetti condannati in primo grado possono chiedere in sede di impugnazione di essere condannati ad una sanzione ridotta. La misura di tale sanzione, unitamente alla accettazione della istanza, è definita dalla sezione di appello, sentito il procuratore. Essa non può eccedere il tetto del 30% del danno erariale quantificato in primo grado.

 

La conversione dei contratti di formazione e lavoro

Anche per il 2006, norma ormai abitudinaria, vengono riproposti i limiti alla conversione a tempo indeterminato dei contratti di formazione e lavoro. Il tetto è fissato nei limiti consentiti per le assunzioni a tempo indeterminato. Per i contratti che gli enti decidono di trasformare è prevista la proroga fino al 31 dicembre 2006.

 

Le cessioni del quinto dello stipendio

Il comma 346 detta un insieme di modifiche alle disposizioni in materia di cessione del quinto dello stipendio da parte dei dipendenti e dei pensionati pubblici. Norme che seguono le recenti innovazioni legislative che hanno ampliato la possibilità di ricorrere ad istituti diversi dall’Inpdap. Una prima disposizione fissa l’efficacia della cessione al momento della notifica nei confronti dei debitori ceduti. Si devono inoltre ricordare le misure che impongono, a tutela dei dipendenti, l’obbligo di rispetto delle deliberazioni del Comitato Interministeriale per il Credito.

 

I Lsu

Viene disposto il finanziamento della proroga di un anno dei progetti per la utilizzazione dei lavoratori socialmente utili.

 

LA CIRCOLARE DELLA RAGIONERIA GENERALE DELLO STATO

Le spese per il personale su cui gli enti locali devono effettuare il taglio previsto dalla legge finanziaria sono, per il Ministero dell’Economia e delle Finanze, comprensive anche degli oneri per le nuove assunzioni autorizzate per il triennio 2005/2007 dal Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. Ed ancora esse sono comprensive degli oneri che le amministrazioni sostengono per i lavoratori socialmente utili e delle assunzioni a tempo determinato di dirigenti e responsabili sulla base delle previsioni dettate dall’articolo 110, commi 1 e 2, del DLgs n. 267/2000, testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali. Sono queste le indicazioni di maggiore rilievo contenute nella circolare n. 9 del 17 febbraio della Ragioneria Generale dello Stato. Si deve inoltre sottolineare l’importanza delle indicazioni fornite sui casi di mancato rispetto dei vincoli posti dalla legge finanziaria, con la prospettazione di una possibile segnalazione alla Corte dei Conti.

Tali indicazioni sono, in particolare per gli oneri derivanti dalle assunzioni disposte dal DPCM e per quelle effettuate sulla base dell’articolo 110 del testo unico delle leggi sugli enti locali, in contraddizione con le indicazioni fornite dall’Anci. Che ne ha infatti subito sottolineato il carattere unilaterale, contestando il metodo seguito ed il contenuto.

Comunque, si deve ritenere che siano discutibili, sulla base della interpretazione sistematica della normativa in vigore, una serie di indicazioni in essa contenute, in particolare per la inclusione degli oneri sulle assunzioni a tempo determinato di dirigenti e responsabili, nonché per le spese relative alle integrazioni salariali ai lavoratori socialmente utili, e per le esclusioni degli oneri per le proroghe dei contratti di formazione e lavoro e delle spese per le categorie protette.

 

L’ambito di applicazione

La circolare della Ragioneria Generale dello Stato chiarisce che sono soggetti al rispetto del vincolo dettato dalla legge finanziaria tutti gli enti locali, ivi compresi i consorzi tra le amministrazioni locali costituite ai sensi dell’articolo 1, commi 1 e 2, del DLgs n. 267/2000. Sono cioè compresi nel vincolo anche le amministrazioni locali a cui non si applicano i vincoli previsti dal patto di stabilità. Sono da considerare compresi pertanto tutti i comuni, a prescindere dal numero di abitanti, le province, le comunità montane, le unioni di comuni, le comunità isolane ed i consorzi che sono considerati enti locali.

Occorre assumere come base di riferimento i dati risultanti dalla competenza, per come indicati nei consuntivi, e gli impegni di spesa, nozione che la circolare sembra limitare solo agli enti che utilizzano la contabilità finanziaria, senza considerare i dati di cassa. Da tali cifre vanno depurati i dati relativi agli arretrati derivanti dalla applicazione del CCNL del 22.1.2004, che ricordiamo essere riferiti a tre voci: miglioramento del trattamento economico fondamentale, indennità di comparto ed oneri aggiuntivi corrisposti a seguito dei miglioramenti ai compensi tabellari per specifiche indennità (quali il lavoro straordinario ed il turno). Vanno anche esclusi tutti gli oneri che derivano dai miglioramenti disposti dal nuovo CCNL per il biennio economico 2004/2005, nonché da altri rinnovi contrattuali, quali ad esempio quello dei dirigenti ed il CCNL per il biennio 2006/2007.

 

Il calcolo delle spese di personale

Il primo punto controverso su cui la circolare fornisce la propria interpretazione è costituito dalle spese che deriveranno dalle assunzioni effettuate sulla base del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri per il triennio 2005/2007. Tali spese devono essere considerate comprese tra quelle su cui effettuare il taglio dell’1% del costo del personale. Ricordiamo che l’Anci ha sostenuto la tesi contraria sulla base della considerazione che esse hanno già concorso al raggiungimento dei risparmi previsti dalla legge finanziaria 2005, legge n. 311/2004. Questa tesi è contestata dalla Ragioneria Generale dello Stato, che le considera espressamente come dei risparmi addizionali. Da ricordare che il testo finale, a differenza di quello varato in prima lettura dal Senato, non contiene tale esclusione in forma espressa.

Le spese che sono da includere sono le seguenti:
1) le retribuzioni lorde, comprensive degli oneri riflessi per i contributi obbligatori. Tale voce deve includere tutte le forme di trattamento accessorio corrisposte sia al personale a tempo indeterminato che a tempo determinato. Ricordiamo che nei fondi per il trattamento accessorio del personale rientrano anche gli oneri derivanti da incentivazioni previste da norme di legge, quindi ad esempio quelle corrisposte per la incentivazione della progettazione interna sulla base della legge n. 109/1994. E che la circolare incluse anche gli oneri derivanti dalla contrattazione integrativa decentrata dei dirigenti e del segretario;

2) le retribuzioni del personale assunto con contratti di lavoro flessibile, tra cui espressamente la circolare richiama i contratti di somministrazione a tempo determinato;

3) i compensi eventuali posti a carico delle amministrazioni per i lavoratori socialmente utili. Tale inclusione appare quanto mai discutibile, visto che non si configura in questo caso in alcun modo né un rapporto di lavoro subordinato, anche nella forma flessibile, né una collaborazione coordinata e continuativa. Si ritiene che, sulla base della logica ispiratrice la circolare, tale principio possa essere esteso a forme analoghe di rapporto presenti in numerose regioni;

4) i compensi corrisposti ai collaboratori coordinati e continuativi, cioè per tutti quei rapporti che sono qualificabili in termini formali come regolati da questo strumento e non per i collaboratori occasionali, che si devono ritenere essere non compresi in tale nozione;

5) l’Irap che è sostenuta dalle amministrazioni locali;

6) gli assegni per il nucleo familiare;

7) i buoni pasto;

8) l’equo indennizzo;

9) il personale in convenzione. Siamo dinanzi ad una formulazione alquanto generica che la circolare limita in modo opportuno, con il richiamo agli articoli 13 e 14 del CCNL del 22.1.2004, ai soli rapporti derivanti da forme di gestione associata;

10) gli uffici di staff degli organi politici;

11) i dirigenti e/o responsabili assunti sulla base dell’articolo 110, commi 1 e 2, del DLgs n. 267/2000. Anche in questo caso la inclusione di tale voce appare quanto mai discutibile, alla luce della espressa esclusione disposta dal comma 3 dello stesso articolo di tali oneri da quelli che devono essere conteggiati nei costi “contrattuali e del personale”.

 

Le spese da escludere

La circolare del Ministero dell’Economia indica una serie di voci che devono essere escluse dal calcolo delle spese di personale. Tali voci devono, in linea generale, essere escluse anche dal calcolo delle spese correnti su cui effettuare la riduzione del 6,5% o dello 8% ai fini del rispetto del patto di stabilità. Esse sono le seguenti:

  • categorie protette. Siamo dinanzi ad una indicazione che appare priva di riferimenti ulteriori, si ritiene che essa si debba circoscrivere ai dipendenti appartenenti a tali categorie entro il limite di quelli necessari a raggiungere la quota minima prevista come obbligatoria dalla normativa;
  • i contratti di formazione e lavoro prorogati sulla base delle disposizioni previste dalla stessa legge finanziaria. Tale esclusione, la cui ratio non è indicata nella circolare, vale esclusivamente per l’anno 2006;
  • il personale comandato presso le altre PA, per i quali è previsto il rimborso da parte delle stesse;
  • il personale i cui oneri sono posti interamente a carico di finanziamenti comunitari o privati. Fin qui le indicazioni della circolare, che evidentemente esclude queste voci tenendo conto del fatto che esse non sono incidenti ai fini del patto di stabilità. Si può ritenere di escludere in via estensiva, ma la circolare non dice nulla, anche il personale e le collaborazioni coordinate e continuative i cui oneri vengono sostenuti dalle regioni;
  • il lavoro straordinario e gli altri oneri per il personale derivante da consultazioni elettorali per le quali è previsto il rimborso delle spese da parte del Ministero degli Interni. Tale principio può essere esteso per le altre elezioni i cui oneri sono rimborsati ai comuni da parte di altre amministrazioni, cioè le elezioni regionali e quelle provinciali. Sono pertanto esclusi dalla circolare gli oneri per le elezioni per il rinnovo dei consigli comunali;
  • il personale trasferito agli enti locali a seguito del decentramento di funzioni amministrative da parte delle regioni;
  • la formazione del personale, spesa che per la circolare deve essere inclusa nell’ambito di quelle correnti su cui effettuare il taglio del 6,5% o dello 8% ai fini del rispetto del patto di stabilità;
  • le missioni (indennità e rimborsi), spesa che per la circolare deve essere inclusa nell’ambito di quelle correnti su cui effettuare il taglio del 6,5% o dello 8% ai fini del rispetto del patto di stabilità. Da sottolineare che la legge finanziaria ha disposto la abrogazione della indennità di trasferta, che sulla base delle disposizioni contenute nelle cd code contrattuali coincide negli enti locali con la indennità di missione, cioè la cd diaria.

 

I punti da chiarire

Dopo la circolare, che ripetiamo non avere comunque un carattere vincolante per le amministrazioni locali, sono rimasti pochi punti da chiarire. Il principale riguarda gli oneri per i segretari, che la stessa circolare include nel calcolo delle spese per il personale solo per la parte riguardante la contrattazione decentrata. Si ritiene che essa formuli pertanto il principio per cui sono da includere unicamente le spese che gli enti sostengono per la applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro del 16.5.2001 e non anche quelli che derivano da scelte alla cui formazione l’ente ha concorso direttamente. Siamo dinanzi ad un principio interpretativo che le amministrazioni possono applicare con una qualche flessibilità, in particolare nelle realtà in cui si è registrata una variazione rispetto alla condizione dell’anno 2004.

La circolare non dice alcunchè, ma si deve ritenere che siano compresi gli oneri che le amministrazioni sostengono per il direttore generale, a qualunque titolo ciò avvenga, cioè sia nel caso di personale all’uopo assunto che di conferimento di tale incarico al segretario comunale.

Si deve ricordare che la spesa per il personale assunto a tempo indeterminato e determinato, sia per l’anno 2004 che per il 2006, non deve essere proiettato sull’intero anno ma solo per il periodo di effettiva utilizzazione. Il che rischia di rendere più problematico il rispetto del patto per alcuni enti, ma siamo dinanzi ad una conseguenza che discende direttamente dalla norma.

Questa circolare non detta alcuna specifica indicazione sugli effetti delle esternalizzazioni, che ricordiamo fanno comunque diminuire la spesa per il personale. Si deve ritenere, sulla base delle considerazioni svolte nella circolare della Ragioneria Generale dello Stato n. 8/2006 sul rispetto del patto di stabilità, che espressamente esclude i trasferimenti alle istituzioni per i servizi sociali costituite ex articolo 114, comma 2, del DLgs n. 267/2000. Ricordiamo che tale strumento è utilizzabile non solo per finalità sociali, ma anche per altri scopi, quali ad esempio la gestione di servizi culturali. La stessa Ragioneria Generale dello Stato fa inoltre esplicito riferimento alle cd società in house, a prescindere al loro regime giuridico. Tali sono le società di proprietà, amministrate o controllate dall’ente e che non vendono sul mercato per una quota pari o superiore alla metà dei propri ricavi, nel qual caso la circolare le considera enti “market” o di mercato.

La circolare non detta infine nessuna disposizione per il conteggio delle spese per il personale relative ad annualità diverse, salvo che per la esclusione degli oneri contrattuali. Si ritiene che tali spese debbano essere escluse dalla base di calcolo.

 

Altre considerazioni

La Ragioneria Generale dello Stato ci ricorda che i risparmi derivanti dalla riduzione delle indennità degli amministratori e dei gettoni di presenza per i consiglieri possono concorrere alla diminuzione delle spese per il personale e fissa la indicazione che tali risparmi debbano essere ulteriori rispetto a quelli del 10% dettati come vincolanti per tutti gli enti dal comma 54 della legge n. 266/2005. Anche in questo caso tale interpretazione solleva numerosi dubbi di legittimità, visto che nella norma di legge manca l’esplicito riferimento a che tali riduzioni siano ulteriori. Manca nella circolare inoltre qualunque riferimento ai casi di enti che hanno disposto autonomamente, in data precedente al 30 settembre 2005, riduzioni alla indennità degli amministratori ed ai gettoni di presenza dei consiglieri.

La circolare ricorda che gli oneri per la contrattazione decentrata integrativa possono essere rivisti dagli enti per le parti relative alle risorse che il CCNL definisce come eventuali e variabili, con ciò escludendo quelle stabili. Si deve evidenziare che tale lettura non consente agli enti di intervenire nella rideterminazione del fondo nel caso di riduzioni del personale in servizio e di contrazione delle dotazioni organiche, per come invece espressamente previsto dalla norma di legge.

Ci viene ricordato che la stessa legge prevede direttamente forme di controllo del rispetto del vincolo, che si realizzano essenzialmente attraverso la comunicazione allo stesso Ministero dell’Economia e delle Finanze da parte di tutti gli enti e che vede il coinvolgimento diretto dei revisori dei conti.

La Ragioneria Generale dello Stato, mentre non indica la presenza di specifiche sanzioni in caso di mancato rispetto, stante la assenza di norme di legge al riguardo, evidenzia che in caso di inadempienza possano intervenire le sezioni regionali di controllo della Corte dei Conti. E che al riguardo è la stessa legge finanziaria a prevedere un loro ruolo per ciò che riguarda complessivamente la gestione delle amministrazioni locali. Si deve ricordare che oltre a ciò il Ministero ha direttamente nelle proprie mani lo strumento della attivazione delle ispezioni sulla applicazione delle disposizioni dettate per la gestione del personale.

IL DL N. 4/2006

Il Decreto sulla organizzazione delle PA contiene numerose disposizioni che producono conseguenze immediate e dirette sugli enti locali; basta ricordare. Siamo dinanzi a norme che aprono rilevanti problemi per la gestione delle risorse umane nelle amministrazioni locali, soprattutto perché vengono immediatamente dopo le innovazioni contenute nella legge finanziaria 2006, innovazioni ispirate anch’esse da una logica di restringimento degli ambiti di utilizzazione di questi istituti. Ricordiamo che la legge n. 266/2005 ha compreso gli oneri per le assunzioni a tempo determinato, per le altre forme di assunzioni flessibili e per il conferimento degli incarichi di collaborazione coordinata e continuativa tra quelli da calcolare ai fini del risparmio obbligatorio. La legge finanziaria ed il decreto legge sulla organizzazione delle PA segnano così una netta inversione di rotta rispetto alle scelte dettate dalla legislazione degli ultimi anni. Legislazione che ha in primo luogo fortemente allargato le occasioni di flessibilità nei rapporti di lavoro, sia per le aziende private che per le PA: basta ricordare il DLgs n. 368/2001 sulle assunzioni a tempo determinato (ampliamento delle ragioni che consentono il ricorso a questo istituto e della durata) e la legge Biagi, DLgs n. 276/2003 (sostituzione del contratto di somministrazione al lavoro interinale, ampliamento delle ragioni che ne giustificano l’utilizzazione e non applicazione alle PA della abrogazione delle cococo). E che, con le ultime leggi finanziarie, ha imposto lo stop alle assunzioni a tempo indeterminato, senza introdurre vincoli per quelle a tempo determinato, salvo che per le amministrazioni locali che non hanno rispettato il patto di stabilità. Ed ancora su questi temi la legislazione degli ultimi anni, vedi in particolare il DL 168/2004, per questi aspetti dichiarato incostituzionale, e la legge n. 311/2004 si sono al più limitati ad imporre tetti alla spesa per il conferimento di incarichi di collaborazione e forme più marcate di monitoraggio e controllo.

Il Decreto contiene numerose altre disposizioni che determinano effetti immediati sulla gestione delle risorse umane e sulla organizzazione degli enti locali: la riforma dei titoli di studio necessari per l’accesso alla dirigenza, le limitazioni alla possibilità di avere personale in soprannumero, il monitoraggio della applicazione delle norme per le assunzioni obbligatorie, la contrattazione collettiva dei segretari comunali e provinciali e le assunzioni a tempo indeterminato.

L’articolo 13 dichiara esplicitamente le finalità della disposizione: “ridurre il numero delle collaborazioni coordinate e continuative nelle pubbliche amministrazioni”. Ricordiamo che negli ultimi anni tale numero è significativamente aumentato, in particolare nei comuni, creando una condizione di diffuso precariato ed esponendo amministratori e dirigenti a notevoli rischi sul terreno personale, stante la condizione di diffusa illegalità. Nella gran parte dei casi infatti le cococo sono, nei fatti, una forma di assunzione flessibile alternativa a quelle a tempo determinato e più vantaggiose per gli enti perché consentono un risparmio sugli oneri riflessi, perché la tutela dei lavoratori è minore e per la assenza di procedure selettive.

Il Decreto Legge riduce significativamente l’ambito entro il quale è possibile stipulare contratti di assunzione a tempo determinato e ricorrere al contratto di somministrazione da parte delle Pubbliche Amministrazioni. Tali restrizioni, che si aggiungono a quelle di spesa contenute nella legge finanziaria 2006, limitano le ragioni che consentono ai soggetti pubblici di ricorrere a personale assunto con contratto a tempo determinato o con altre forme flessibili.

La scelta legislativa suggerisce due riflessioni. Si deve subito sottolineare che il legislatore ha modificato l’orientamento degli ultimi anni, orientamento che aveva voluto limitare il ricorso alle assunzioni a tempo indeterminato, lasciando mano libera alle PA, ed in particolare ai singoli enti locali, di aumentare il ricorso alle assunzioni flessibili. La seconda riflessione è che il legislatore ha creato nuovamente una netta differenziazione in questa materia tra le regole che sono in vigore nel mondo delle aziende private e quelle che si applicano alle Pubbliche Amministrazioni, mentre fino ad oggi il sistema delle assunzioni a tempo determinato e quello dei contratti di somministrazione a tempo determinato erano caratterizzati dalla unitarietà delle disposizioni per il settore pubblico e per il settore privato.

Vediamo l’esame analitico delle innovazioni. Il Dlgs n. 368/2001, che regola le assunzioni a tempo determinato, ed il DLgs n. 276/2003, che disciplina i contratti di somministrazione a tempo determinato, fissano le stesse regole per la utilizzazione di questi istituti, ricordiamo che in linea generale per quanto non espressamente previsto dalle norme sui contratti di somministrazione si applicano quelle sulle assunzioni a tempo determinato: ragione organizzativa, tecnica, produttiva o sostitutiva. Occorre che sia presente almeno una di tali ragioni, il che ha permesso la utilizzazione in modo assai ampio dell’istituto. Il legislatore aveva in tal modo consentito ai datori di lavoro la possibilità di ricorrere ad essi praticamente per tutte le esigenze. Con le nuove disposizioni si dispone che le PA possano ricorrere alle assunzioni a tempo determinato ed ai contratti di somministrazione a tempo determinato solo per “esigenze temporanee ed eccezionali”. La riforma opera dunque due restrizioni: in primo luogo viene limitata la possibilità di ricorrere alle assunzioni flessibili, sottolineandone il carattere eccezionale. In secondo luogo si operano delle restrizioni sulla durata di questi contratti: attraverso la previsione del carattere “temporaneo” delle esigenze che giustificano il ricorso a questo istituto se ne rende sostanzialmente impraticabile, quanto meno nella gran parte dei casi, la durata lunga. Ricordiamo che il legislatore non ha posto un tetto comune, ma ha delegato i singoli enti a fissarlo in ragione delle motivazioni che giustificano il ricorso all’istituto e che ha previsto l’unico limite, per le assunzioni a tempo determinato per le quali viene disposta la proroga, di non superare i tre anni. Si prevede che le PA debbano verificare, previamente al ricorso alle assunzioni flessibili, la possibilità di attivare forme di assegnazione temporanea di personale, la utilità del ricorso al contratto di somministrazione, la esternalizzazione e l’appalto di servizi.

Alle trattative per il rinnovo del contratto collettivo nazionale dei segretari comunali e provinciali sono ammesse anche le organizzazioni più rappresentative nell’ambito della categoria e non solo quelle più rappresentative nel comparto. Tale contratto ha una sua specifica autonomia nell’ambito del comparto regioni ed enti locali.

Si chiarisce che le assunzioni di personale a tempo indeterminato per gli enti locali sono regolate per l’intero triennio 2005-2007 dall’emanando Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. Sulla base delle sue prescrizioni e del dettato della legge finanziaria 2005, legge n. 311/2004, esse possono essere effettuate nell’arco dell’intero triennio, per cui quelle non effettuate nel 2005, visto che il provvedimento non è stato ancora emanato, non vanno perdute, ma sono utilizzabili nel 2006 e nel 2007.

Ai concorsi per l’accesso alla dirigenza delle PA sono ammessi i laureati che hanno una anzianità di almeno 5 anni di incarichi dirigenziali ed i laureati che sono in possesso del dottorato triennale di ricerca e con la anzianità di almeno due anni come incarichi dirigenziali.

Il Dipartimento della Funzione Pubblica deve essere informato da parte dei singoli enti dell’applicazione delle norme sulle assunzioni obbligatorie e delle convenzioni stipulate per la utilizzazione dei lavoratori socialmente utili.

Viene vietata la possibilità di individuare, nelle dotazioni organiche, anche in via temporanea, figure in soprannumero se nell’ambito dell’ente vi sono vacanze di organico. Le singole amministrazioni pubbliche devono effettuare con cadenza annuale su base territoriale la rilevazione delle eccedenze di personale, per profili e categorie. Alla base di tale disposizione l’obiettivo di stimolare la mobilità tra il personale delle PA, in particolare delle figure eccedenti.

IL DPCM SULLE ASSUNZIONI

E’ stato emanato il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri che sblocca parzialmente le assunzioni di personale che gli enti locali in regola con il patto di stabilità possono effettuare nel triennio 2005/2007. Accanto a questo provvedimento il Ministro per la Funzione Pubblica ha emanato un altro DPCM sulle assunzioni che possono essere effettuate dalle regioni e dalle aziende del servizio sanitario. Il provvedimento sulle assunzioni detta anche le regole per la rideterminazione delle dotazioni organiche, sempre alla luce delle disposizioni dettate dalla legge n. 311/2004. Siamo dinanzi ad una forte contrazione delle possibilità effettive di assunzione, il che obbliga gli enti locali a vedere ulteriormente dimagriti i propri organici e dovrebbe spingerli ad una razionalizzazione dei propri modelli organizzativi. Razionalizzazione che, anche alla luce delle disposizioni dettate dalla legge finanziaria, dovrebbero spingere le amministrazioni sempre più in direzione della esternalizzazione della gestione di servizi e del personale negli stessi impegnato.

Oltre a quelle previste dal DPCM gli enti locali in regola con il patto di stabilità possono effettuare assunzioni attraverso il ricorso alla mobilità e per le categorie protette, entro i limiti necessari a raggiungere la cifra minima imposta dalla normativa. Ricordiamo che nel 2005 potevano anche effettuare le assunzioni autorizzate dal DPCM del 2004 e non completate entro tale anno. Devono essere considerate come nuove assunzioni, e pertanto sono soggette ai vincoli posti dal provvedimento, quelle che provengono per mobilità da amministrazioni che non sono sottoposte alle limitazioni alle assunzioni.

Gli enti che non hanno rispettato il patto di stabilità non possono effettuare assunzioni di personale a nessun titolo, salvo lo spiraglio della mobilità per compensazione.

 

Le assunzioni nei comuni

I comuni possono effettuare assunzioni di personale a tempo indeterminato nel triennio 2005/2007 entro il tetto del 25% delle cessazioni verificatesi nel triennio 2004/2006. Le stesse regole si applicano anche alle unioni di comuni ed alle comunità montane. Per i comuni aventi popolazione inferiore a 2.000 abitanti, le comunità montane ed i consorzi si prevede la possibilità di coprire integralmente il turn over del personale cessato. Una parziale limitazione di tali restrizioni è disposta per i comuni con popolazione compresa tra 2.000 e 5.000 abitanti: la prima assunzione può essere effettuata a fronte di una cessazione; per la seconda occorre attendere che si siano concretizzate altre 6 assunzioni. Per gli stessi enti in cui si siano verificate 4 assunzioni dallo 1 gennaio 2004 vi è la possibilità di disporre la seconda al raggiungimento del numero di 5 cessazioni.

Si deve evidenziare che non sono consentiti arrotondamenti e che il conto viene fatto in modo cumulativo, cosicché tutte le cessazioni del triennio possano essere tra loro sommate.

Il Decreto non detta alcun vincolo per il raggiungimento di uno specifico tetto di risparmi. Esso si limita a riproporre lo stesso meccanismo previsto per calcolare i risparmi delle amministrazioni provinciali. Sulla base di tale meccanismo viene fissato il tetto di risparmi che devono essere raggiunti. Non viene cioè imposto ad ogni singolo ente il raggiungimento di uno specifico tetto di spesa. Viene cioè ad essere rimesso alla autonomia delle singole amministrazioni la scelta tra la limitazione delle assunzioni solo come numero ovvero anche come spesa. E’ evidente che nel primo caso i singoli enti sono completamente liberi di individuare il personale da assumere, senza essere in alcun modo legati a quelli che sono cessati, mentre nel secondo caso si vincolano come categorie da assumere. Si deve sottolineare che in ogni caso non vi è alcun vincolo imposto sulle figure da assumere, neppure in relazione alle cessazioni: gli enti hanno al riguardo piena autonomia di scelta.

L’Anci sottolinea che nell’ambito del volume di risparmi che gli enti raggiungono si possono effettuare progressioni verticali, dopo che il recente parere della commissione speciale per il pubblico impiego le ha considerate nuove assunzioni e, come tali, comprese entro i vincoli posti dalla legge finanziaria.

E’ previsto che, entro sei mesi dalla entrata in vigore del provvedimento, cioè entro il prossimo mese di agosto, si procederà ad una verifica sull’effettivo raggiungimento dei risparmi tra i ministeri della Funzione Pubblica, della Economia e dell’Interno e l’Anci al fine, eventualmente, di “mitigarne” i vincoli.

 

Le assunzioni nelle province

Il tetto di risparmi da conseguire viene invece indicato per ogni singola provincia da una tabella allegata al Decreto firmato dal ministro Baccini in attuazione delle prescrizioni dettate dalla legge finanziaria 2005. Per gli anni 2005 e 2006 le province possono optare per effettuare assunzioni entro il tetto del 25% delle cessazioni. Nel caso in cui scelgano questa seconda alternativa le amministrazioni possono scegliere autonomamente la categoria del dipendente da assumere, senza essere vincolati in alcun modo a quelle dei dipendenti che sono cessati.

Il tetto dei risparmi è determinato per ogni singola provincia sulla base del numero dei dipendenti in servizio a tempo indeterminato al 31 dicembre 2003, moltiplicato per la quantità di risparmi di spesa che le amministrazioni provinciali devono realizzare. Tale cifra è divisa per il numero di dipendenti a tempo indeterminato delle province alla stessa data.

Il trattamento economico di ogni dipendente da assumere deve essere calcolato sommando le seguenti voci: trattamento tabellare per 13 mensilità sulla base della posizione economica iniziale, indennità di comparto, oneri riflessi ed Irap. Per il calcolo del trattamento economico dei dipendenti cessati si deve considerare, come unica differenza, il trattamento tabellare della posizione economica media della categoria di appartenenza.

Le disposizioni per tutti gli enti

Il DPCM detta una serie di disposizioni in tema di assunzioni a tempo indeterminato che sono dirette a tutti gli enti locali. La prima, e più importante, prevede che le cessazioni per mobilità non siano calcolate nell’ambito delle cessazioni. Siamo dinanzi ad una interpretazione che modifica la situazione esistente, visto che fino ad oggi tale esclusione non era disposta da nessuna disposizione. Sulla base di tale considerazione, che molte amministrazioni locali hanno assunto a base delle proprie autorizzazioni alla mobilità in uscita e cioè che quella cessazione poteva, anche se parzialmente, essere sostituita, l’Anci ritiene che questa disposizione non si applichi retroattivamente e cioè che essa maturi solo per le cessazioni per mobilità che verranno autorizzate dopo l’entrata in vigore del DPCM. L’Anci ritiene inoltre di dovere escludere le mobilità verso altre amministrazioni comunali, in considerazione del fatto che i risparmi per il “sottocomparto” comuni sono stati calcolati in modo espresso ed autonomo. Si deve inoltre sottolineare che per i comuni fino a 2.000 abitanti il DPCM prevede che le assunzioni possano essere disposte al fine di rimpiazzare tutto il turn over.

Una seconda disposizione prevede che tutte le amministrazioni locali debbano informare la Ragioneria Generale dello Stato presso il Ministero dell’Economia ed il Dipartimento della Funzione Pubblica sulle assunzioni derivanti da stabilizzazioni di precariato e di lavoratori socialmente utili disposte sulla base di leggi speciali al fine di monitorare gli effetti derivanti dalla applicazione di tali norme.

 La rideterminazione delle dotazioni organiche

Il Decreto firmato dal ministro Baccini detta anche le disposizioni per la rideterminazione delle dotazioni organiche, sempre in applicazione delle norme dettate dalla legge finanziaria 2005, legge n. 311/2004, sulla base delle previsioni in essa contenute. Si prevede un taglio, tutto sommato morbido, della consistenza delle dotazioni organiche. Occorre considerare che, in questo ambito, siamo dinanzi a spese teoriche e, pertanto, ad una manovra che non produce immediatamente conseguenze sul terreno operativo. Tale obiettivo è peraltro dichiarato espressamente dal DPCM che prevede la sua finalizzazione alla “riduzione del divario esistente tra dotazione organica e personale in servizio”.

In primo luogo, la gran parte degli enti locali viene esentata da questo obbligo, che infatti non si applica ai comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, alle unioni dei comuni, alle comunità montane ed ai comuni del Friuli, della Valle d’Aosta e del Trentino Alto Adige.

In secondo luogo si deve sottolineare che i singoli enti hanno ovviamente piena autonomia nella modifica delle proprie dotazioni organiche; ciò di cui il Decreto si occupa è esclusivamente la fissazione del tetto massimo di spesa. Tetto che deve essere ovviamente riferito a quella teorica, cioè a quella che maturerebbe nel caso in cui tutti i posti fossero coperti.

Per il calcolo, il provvedimento assume come base la spesa per il personale in servizio al 31 dicembre 2004. Tale cifra, suggerisce l’Anci, deve essere considerata sulla base dell’intero trattamento economico, quindi anche dei fondi per la contrattazione decentrata, e deve includere anche il personale a tempo determinato in servizio a tale data.

Ad essa si devono sommare gli oneri determinati dalle procedure concorsuali in atto alla data del 30 novembre 2004, cioè prima che la sentenza della Corte Costituzionale n. 390/2004 disponesse la illegittimità delle norme dettate di limitazione delle assunzioni di personale dettate dalle leggi finanziarie 2003 e 2004. E si devono ancora aggiungere gli oneri determinati dalle mobilità in corso alla data dello 1 gennaio 2005. Ed infine si devono aggiungere gli oneri connessi a processi di trasformazione o soppressione o a personale in eccedenza. Tale cifra deve essere moltiplicata per la percentuale prevista dal provvedimento.

Il risultato così raggiunto darà, in linea generale, la spesa massima ammessa per la rideterminazione della dotazione organica. Tale principio conosce due eccezioni. In primo luogo, negli enti in cui questa cifra fosse inferiore di oltre il 5% al costo della dotazione organica in vigore al 31 dicembre 2004, il tetto massimo di spesa per le dotazioni organiche è fissato in quella in vigore a tale data diminuita del 5%, che è cioè il limite massimo di riduzione consentito. E’ questo il caso delle amministrazioni in cui vi è una forte aliquota di posti non coperti. Negli enti in cui gli oneri per la nuova dotazione organica sono maggiori di quella in vigore alla data del 31 dicembre 2004 si continua ad applicare quella in vigore a tale data. Cioè in nessun caso si può dare luogo ad un incremento dei costi derivanti dalla dotazione organica. E’ questo il caso delle amministrazioni in cui vi è una copertura elevatissima dei posti in dotazione organica.

Ricordiamo che occorre assumere la situazione esistente alla fine del 2004 e che a tale data aveva ampiamente cessato di produrre effetti il blocco delle dotazioni organiche disposto da una precedente norma.

 

CAPITOLO 7: LE RESPONSABILITA’ INTERMEDIE

La riforma della legge n. 241/1990 dettata dalla legge n. 15/2005 detta poche, ma rilevanti modifiche alle disposizioni sul responsabile del procedimento. Tali modifiche accentuano la responsabilizzazione di questa figura che assume pertanto un ruolo sempre più centrale nella attività amministrativa. Un ruolo che costituisce il punto di riferimento unico della attività nella fase propedeutica, anche per ciò che riguarda i rapporti che si devono aprire con soggetti esterni. L’esame dei compiti del responsabile del procedimento deve congiungersi alla analisi delle disposizioni dettate dalla legge Frattini, legge n. 145/2002, in tema di delega di funzioni dirigenziali. Disposizioni che, in particolare sul tema della adozione dei provvedimenti a rilevanza esterna, dettano specifiche previsioni.

LA STRUTTURA RESPONSABILE

In primo luogo viene confermato integralmente dall’articolo 4 della legge n. 241/1990 l’obbligo per tutte le PA di individuare, con atto da rendere pubblico, le unità organizzative responsabili della istruttoria e della adozione del provvedimento finale per tutti i procedimenti. Siamo dinanzi ad un adempimento previsto dalla legge fin dalla sua adozione, adempimento che di regola viene soddisfatto attraverso il regolamento sui procedimenti e sui relativi termini. Si prescrive l’obbligo di pubblicità, che si può ritenere soddisfatto attraverso il rispetto delle prescrizioni di carattere generale, vedi in particolare la affissione all’albo pretorio. Non sono infatti richieste forme di pubblicità adeguate o ulteriori. Occorre evidenziare che la disposizione prevede che la responsabilità del procedimento non sia scissa tra più unità organizzative, ma sia concentrata in una sola. Si deve infine evidenziare che la dizione di unità organizzative è quanto mai generica e consente alle singole amministrazioni di scegliere il modello che si ritiene più adeguato. Ricordiamo infine che la indicazione della struttura individuata come responsabile di un procedimento deve essere contenuta nella comunicazione di avvio del procedimento.

L’INDIVIDUAZIONE

La legge n. 15/2005 non ha modificato le disposizioni dettate dall’articolo 5 della legge n. 241/1990 in materia di individuazione del responsabile del procedimento. Tale attribuzione spetta, ci dice la disposizione, al dirigente della articolazione organizzativa individuata come responsabile del procedimento ovvero, su sua designazione, ad un dipendente di tale struttura. Le disposizioni ci dicono inoltre che il responsabile del procedimento può dal dirigente essere individuato anche come soggetto competente alla emanazione del provvedimento finale. Ovviamente la nozione di dirigente deve essere intesa in senso ampio, cioè deve comprendere anche i titolari di posizione organizzativa negli enti che sono sprovvisti di dirigenti.

Il legislatore offre quindi tre soluzioni per la individuazione del responsabile del procedimento: il dirigente, un dipendente della struttura, soluzione che a sua volta si suddivide in due opzioni: assegnare la competenza alla adozione del provvedimento finale ovvero riservare a se stessi tale competenza. Non vi sono particolari condizioni o vincoli posti dalla normativa, per cui dobbiamo rifarci ai principi di carattere generale. Con due avvertenze iniziali: la mancata designazione del responsabile del procedimento equivale alla individuazione del dirigente e la individuazione di un dipendente come responsabile del procedimento deve essere effettuata con un atto scritto. E ‘ inoltre opportuno ricordare che la individuazione dell’unità organizzativa e del responsabile del procedimento devono essere comunicati ai soggetti interessati.

La disposizione è stata oggetto di interpretazioni, sia dottrinali che in giurisprudenza, differenziate per ciò che riguarda il trasferimento dal dirigente ad un dipendente della competenza alla adozione del provvedimento finale. Occorre rilevare che siamo dinanzi ad una possibilità che è espressamente prevista dalla norma e che, quindi, in sede interpretativa non si può tralasciare tale chiara indicazione. Per queste ragioni si ritiene che la competenza alla adozione del provvedimento finale possa dal dirigente essere assegnata ad altro dipendente. E che tale indicazione deve risultare in modo espresso e deve essere oggetto di una specifica formalizzazione.

La competenza alla individuazione dei responsabili dei procedimenti ed alla assegnazione dei relativi compiti, ovviamente entro l’ambito previsto dal legislatore, appartiene al dirigente. Siamo in questo caso dinanzi ad una tipica funzione dirigenziale, cioè ad una scelta che è direttamente collegata alle modalità di esercizio dei compiti assegnati ai dirigenti e che, pertanto, appartiene alla sua sfera di autonomia e di responsabilità. Dal che ne deriva la conclusione che l’ente può, sia in sede regolamentare che attraverso la adozione di direttive, dettare delle prescrizioni di carattere generale, ma non può in alcun modo sostituirsi o sovrapporsi alla volontà del dirigente né, tantomeno, espropriarlo. Ovviamente il dirigente esercita tale attribuzione assumendosene pienamente le responsabilità in termini di risultato e, entro i limiti fissati dai principi generali, in termini di responsabilità amministrativa.

E’ aperto il tema se la assegnazione della responsabilità di procedimento possa o meno essere ascritta all’ambito delle attribuzioni relative alla gestione delle risorse umane e che, quindi, i relativi atti non siano atti unilaterali di diritto privato. O che siamo, piuttosto, dinanzi a modalità relative alla organizzazione della attività amministrativa, quindi entro una sfera pubblicistica. Ragione per cui i relativi atti dovrebbero avere una natura provvedimentale e, quindi, essere sottoposti alle regole del diritto amministrativo. Ha natura di atto provvedimentale, sulla base delle espresse previsioni contenute nel DLgs n. 165/2001, l’istituto, per alcuni versi analogo, della delega di funzioni dirigenziali. Il dubbio, in termini concreti, determina delle conseguenze sull’obbligo di motivazione, che è dalla legge n. 241/1990 definito come obbligatorio per tutti gli atti amministrativi, mentre è comunque evidente che non è necessario emanare alcuna comunicazione dell’avvio del procedimento nei confronti del dipendente, trattandosi di un atto introduttivo del procedimento amministrativo. Si deve ritenere, a parere di chi scrive, preferibile la tesi per la quale siamo dinanzi ad atti ascrivibili alla sfera della gestione delle risorse umane, quindi privi di una natura pubblicistica e, in concreto, privi del vincolo della motivazione.

Nella individuazione dei responsabili di procedimento il dirigente è tenuto a rispettare le prescrizioni che si riferiscono alle declaratorie delle categorie in cui il personale è inquadrato ed ai profili professionali. Deve, al riguardo, evitare di assegnare compiti che possono essere ascrivibili a personale inquadrato in una categoria superiore. Dalla declaratoria allegata al CCNL 31.3.1999, cd nuovo ordinamento professionale, possiamo trarre alcune indicazioni di carattere generale. I dipendenti della categoria D possono sicuramente essere individuati, tanto negli enti con i dirigenti che, a maggior ragione, in quelli che ne sono privi, come responsabili di qualunque procedimento, ivi compresi quelli complessi ed in cui i margini di discrezionalità sono assai ampi; basta ricordare le prescrizioni per le quali essi devono avere una approfondita conoscenza plurispecialistica, per le quali possono intrattenere relazioni esterne, ivi comprese le altre istituzioni, aventi natura negoziale e per le quali possono essere investiti anche di poteri di rappresentanza. E che non vi sono, per le stesse ragioni, limitazioni a che sia ad essi assegnato anche il potere di adozione dei provvedimenti finali.

I dipendenti di categoria C possono essere sicuramente individuati come responsabili di procedimento, basta ricordare la loro vecchia definizione, ancora oggi ripresa in molti profili professionali, per cui sono definiti come istruttori e la definizione utilizzata nella declaratoria della loro competenza come monospecialitica. Per spingersi al di là di tale soglia occorre fare riferimento alla complessità del procedimento ed alla dimensione dell’ente, in particolare differenziare la condizione di quelli in cui vi sono i dirigenti dagli altri. In altri termini, la assegnazione della responsabilità di procedimenti complessi e/o la attribuzione del potere di adozione di provvedimenti a rilevanza esterna deve tendenzialmente ritenersi limitata agli enti in cui non sono presenti figure dirigenziali.

Non si può ritenere preclusa in linea di principio la possibilità di assegnare a dipendenti di categoria B la responsabilità di procedimento: basta ricordare che essi, negli enti sprovvisti, di dipendenti di categoria D possono addirittura essere individuati come responsabili di posizione organizzativa. Ma ovviamente occorre il massimo di cautela, per cui verosimilmente tali dipendenti possono essere individuati come destinatari della responsabilità di procedimento in enti di modeste dimensioni privi di dirigenti e tale attribuzione si deve di regola ritenere limitata ai procedimenti semplici ed aventi una natura sostanzialmente ripetitiva e con preclusione della competenza alla adozione dei provvedimenti finali.

Mancano indicazioni specifiche sulla natura del rapporto che lega il responsabile di procedimento all’ente, cioè se egli debba necessariamente essere un dipendente, anche a tempo determinato, ovvero se possa essere legato all’ente da un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa ovvero da un semplice incarico professionale. La risposta deve pertanto essere data sulla base dei principi di carattere generale. Sicuramente laddove sono attribuiti al responsabile di procedimento compiti dirigenziali, quali la adozione del provvedimento a rilevanza esterna, appare necessario che egli sia legato da un rapporto di subordinazione con l’ente. Qualora i suoi compiti non comprendano tale attribuzione il discrimine appare meno netto. A parere di chi scrive, occorre comunque che vi sia un rapporto di incardinazione organica, quindi un rapporto di lavoro subordinato, in considerazione della rilevanza, anche esterna, che assume il responsabile del procedimento.

La legge cd Merloni sui lavori pubblici, legge n. 109/1994 e successive modiche ed integrazioni, prevede una figura specifica di responsabile di procedimento, quello dei lavori pubblici. A questa figura si applicano le disposizioni previste dalla normativa di settore e, solo in quanto compatibili, le norme generali. Ricordiamo che i compiti di questa figura sono assai rafforzati rispetto a quelli attribuiti dalla legge n. 241/1990 alla pluralità dei responsabili di procedimento e ricordiamo anche che la norma prevede espressamente che la sua individuazione sia di regola effettuata tra i dipendenti dell’ente.

Si deve, infine su questo punto, ricordare che il dipendente che è stato individuato dal dirigente come responsabile di procedimento, anche nella ipotesi in cui gli sia stata assegnata la competenza alla emanazione del provvedimento finale, non può rifiutarsi di svolgere tale ruolo. Né può subordinarlo alla corresponsione di una indennità o, comunque, di una forma di trattamento economico accessorio. Ai sensi delle previsioni dettate dal CCNL, infatti, i dipendenti devono svolgere tutti i compiti loro assegnati. Possono, al massimo, chiedere che tali attribuzioni siano confermate per iscritto. Essi non devono svolgere i compiti loro assegnati solo nel caso in cui si concretizzi un reato o una grave illegittimità amministrativa. Ovviamente rimane loro aperta la strada del ricorso in sede giurisdizionale, anche al fine di ottenere il riconoscimento di eventuali mansioni superiori.

LA DELEGA

In parte analogo ed in parte diversificato è l’istituto della delega delle funzioni dirigenziali. Esso è stato introdotto dalla legge n. 145/2002, cd legge Frattini, come comma 1 bis dell’articolo 17 del DLgs n. 165/2001, cioè del testo unico delle leggi sul lavoro pubblico. Tale disposizione prevede la possibilità della delega di competenze da parte dei dirigenti nella gestione, ivi compresa l’adozione di provvedimenti a rilevanza esterna e di gestione delle entrate e della spesa, nonché di coordinamento degli uffici, ivi inclusi i responsabili di procedimento, nonché di gestione delle risorse umane, finanziarie e strumentali. La norma prevede le seguenti condizioni: la delega può essere emanata “per specifiche e comprovate ragioni di servizio”, nonché con atto scritto e motivato, per un periodo di tempo determinato, nei confronti dei dipendenti che coprono “le posizioni funzionali più elevate nell’ambito degli uffici ad essi affidati” ed, infine, che possano essere delegate alcune delle funzioni dirigenziali.

Le condizioni fissate dal legislatore sono dunque assai precise e circostanziate. Il provvedimento, ovviamente scritto, deve essere in primo luogo motivato e deve in particolare indicare quali sono le ragioni di servizio per cui esso viene adottato. Non siamo quindi dinanzi ad una scelta che il dirigente può effettuare a propria completa discrezione, ma deve avere una specifica motivazione riferita alle ragioni d’ufficio. Siamo, più che dinanzi ad un limite alla autonomia dirigenziale, dinanzi ad una modalità che deve essere rispettata. La delega deve avere una durata a tempo determinato, cioè un termine, la cui determinazione è comunque rimessa alla autonomia del dirigente. Di grande rilievo la individuazione del destinatario della delega unicamente nei dipendenti che hanno la posizione funzionale più elevata nell’ambito della struttura organizzativa diretta dal dirigente. E’ questa una chiara limitazione della autonomia dirigenziale, che viene dettata affinchè si evitino condizioni di sperequazione che non trovano una motivata ragione su cui basarsi. Si deve infine evidenziare che l’oggetto della delega viene delimitato in modo duplice. In primo luogo come materie: non sono infatti delegabili alcuni dei compiti dirigenziali, quali la formulazione di pareri agli uffici dirigenziali generali e lo svolgimento dei compiti ad essi delegati dagli uffici dirigenziali generali. In secondo luogo viene delegato come quantità: non possono infatti essere delegati tutte le attività, ma solo alcune.

La delega può riguardare la adozione dei provvedimenti a rilevanza esterna, ed in questo ambito si deve ritenere che essa abbia caratteristiche sostanzialmente analoghe alla assegnazione da parte del dirigente della responsabilità di procedimento, ivi compresa la adozione dei provvedimenti finali. Ed infatti, il primo intento che il legislatore della legge Frattini ha voluto raggiungere, per espressa indicazione contenuta nella relazione illustrativa del provvedimento, è quello di chiarire definitivamente ed incontrovertibilmente in modo preciso la possibilità per il dirigente di delegare la adozione dei provvedimenti a rilevanza esterna ad un altro dipendente. La delega riguarda uno o più aspetti, ad esempio una materia per un periodo di tempo determinato, mentre la attribuzione al responsabile del procedimento del potere di adozione di un provvedimento a rilevanza esterno è di regola da ritenere circoscritto ad uno specifico atto. La delega costituisce quindi un istituto di portata ben più vasta della semplice attribuzione su uno specifico atto del potere di sua adozione. Ed è questa la ragione per cui la delega può essere invece conferita ad un numero più ridotto di soggetti, quelli che occupano la posizione funzionale più elevata nell’ambito della struttura, mentre la competenza alla adozione del provvedimento finale può essere attribuita a tutti i responsabili di procedimento.

Il legislatore ha voluto infine vincolare l’esercizio della delega non a tutte le competenze dirigenziali: è evidente la indicazione per cui si impegna il dirigente a non spogliarsi di tutte le proprie attribuzioni. Ciò porterebbe infatti a doversi chiedere per quali ragioni si legittima la persistenza di una posizione dirigenziale priva di ruolo e di competenze.

La posizione funzionalmente più elevata non deve essere intesa in termini di progressione economica all’interno della categoria, visto che ciò non dà luogo a differenziazioni funzionali, ma solo economiche. Essa và intesa nel senso che nelle strutture organizzative in cui è presente il titolare di posizione, è questa figura l’unico possibile destinatario della delega.

Ricordiamo, infine su questo punto, che il Ministero dell’Interno ha chiarito che questa disposizione è applicabile anche negli enti che sono privi di dirigenti. Il conferimento in queste realtà ai titolari di posizione organizzativa di funzioni dirigenziali non costituisce infatti una delega, quindi non delegabile a sua volta, da parte del sindaco. I poteri di gestione non spettano infatti all’organo politico e questo ha unicamente il compito di ripartirli tra i dirigenti o, negli enti che ne sono sprovvisti, tra i responsabili.

I COMPITI DEL RESPONSABILE DEL PROCEDIMENTO

Alcune importanti modifiche sono state apportate dalla legge n. 15/2005 alla definizione dei compiti del responsabile del procedimento. Spettano a lui, disposizione che riprende la norme originarie della legge n. 241/1990, la valutazione delle condizioni di ammissibilità, dei requisiti di legittimazione e dei presupposti rilevanti; l’accertamento dei fatti e lo svolgimento in termini rapidi della istruttoria, a tal fine anche chiedendo il rilascio di dichiarazioni; le rettifiche, disponendo gli accertamenti tecnici e le esibizioni documentali; la proposta al dirigente o la indizione diretta, se siamo dinanzi alla coincidenza tra responsabile del procedimento e dirigente, della conferenza dei servizi; la cura delle comunicazioni e delle pubblicazioni; la adozione del provvedimento finale ovvero la trasmissione degli atti al soggetto competente, cioè al dirigente ovvero all’organo politico. L’elemento di novità è stato inserito a questo punto: si impegna il responsabile dell’adozione dell’atto a non discostarsi in linea generale dalle risultanze istruttorie. La condizione perché ciò possa avvenire legittimamente è data dalla indicazione espressa delle motivazioni. Per Giovanni Virga siamo dinanzi al recepimento di un orientamento giurisprudenziale, per il quale la contraddittorietà della motivazione deve essere esaminata non solo con riguardo agli atti esterni, ma anche con riguardo agli atti interni.

Sulla base di questa innovazione possiamo ritenere che il responsabile del procedimento, peraltro assai valorizzato nel proprio ruolo e nella propria responsabilità dalle novità apportate dalla legge n. 15/2005, gode di una ampia autonomia gestionale e, in modo correlato, è direttamente responsabile del suo esercizio. Non a caso si può parlare, per alcuni aspetti, di coordinamento procedimentale tra dirigente e responsabile del procedimento, definizione più corretta rispetto a quella della tradizionale subordinazione gerarchica. Definizione che si sostanzia nello svolgimento di poteri di direzione, coordinamento e vigilanza. Il che vuol dire, in termini concreti, che il responsabile del procedimento, ovviamente ove è diverso dal dirigente, risponde comunque a quest’ultimo, in omaggio al principio per il quale il dirigente esercita i poteri e le capacità del datore di lavoro, quindi può impartire ordini, assegna la responsabilità, può revocarla, sostituendosi direttamente ovvero individuando altro dipendente. Ma non può inserirsi nel merito della attività istruttoria svolta dal responsabile del procedimento ed impartire ordini circa le conclusioni a cui essa deve pervenire. Il responsabile del procedimento è, nella fase istruttoria, il punto di riferimento sostanzialmente esclusivo dell’ente. Non a caso il legislatore gli ha attribuito espressamente anche i compiti di interlocuzione esterna, sia con altre istituzioni che con i privati interessati o comunque coinvolti.

La proposta di provvedimento finale che il responsabile del procedimento avanza può assumere forme diverse, ad esempio essere una vera e propria proposta di determinazione o di deliberazione ovvero essere una relazione conclusiva al dirigente competente alla adozione del provvedimento finale. Queste, come tutte le formule che comunque consentono di assumere una chiara indicazione della proposta avanzata dal responsabile del procedimento, sono da considerare pienamente legittime.

La riforma della legge n. 241/1990 contenuta nella legge n. 15/2005 ha determinato l’inserimento del nuovo articolo 10 bis sull’obbligo di comunicazione preventiva dei motivi ostativi all’accoglimento delle istanze di parte. La norma non dice se tale comunicazione debba essere svolta dal responsabile del procedimento o dal dirigente competente alla adozione del provvedimento finale. Si ritiene necessario che questo aspetto sia oggetto di una specifica regolamentazione nei singoli enti, potendosi prevedere sia la attribuzione di tale compito al responsabile del procedimento che la sua attribuzione al dirigente, ovviamente ove a questa figura sia assegnato il compito di adozione del provvedimento finale. In assenza di una tale previsione occorre che il responsabile del procedimento segnali tale obbligo al dirigente, ove non abbia provveduto direttamente, e che il dirigente verifichi che esso sia stato adempiuto, anche al fine di dare una risposta nel provvedimento finale alle considerazioni che il soggetto privato abbia comunque ritenuto necessario avanzare.

LA RESPONSABILITA’

Il ruolo da protagonista attribuito al responsabile del procedimento determina conseguenze anche sul terreno della responsabilità. Sicuramente spetta per intero al dirigente, anche nel caso della delega, la responsabilità dirigenziale o di risultato. Siamo dinanzi ad una scelta che egli compie autonomamente e della quale porta quindi per intero ed in modo esclusivo la responsabilità in termini di risultati effettivamente e concretamente raggiunti. In questo ambito tanto la delega che la attribuzione della responsabilità della adozione del provvedimento finale costituiscono una modalità di svolgimento delle competenze attribuite al dirigente e non lo privano del suo ruolo di protagonista della gestione e, quindi, dei suoi esiti concreti.

Sul versante della responsabilità penale e di quella civile occorre evidenziare che in linea generale al dirigente non possono attribuirsi particolari “ruoli”, stante la natura personale di tali forme di responsabilità. Restiamo, in particolare per la responsabilità civile, nell’ambito dell’istituto della delega e, quindi, della eventuale permanenza della responsabilità del delegante accanto a quella del delegato.

Analoghe considerazioni possono, in parte, essere fatte sulla responsabilità amministrativa e contabile. Anch’essa infatti ha una natura personale. Ma occorre evidenziare che il dirigente ha una responsabilità esclusiva di risultato e che a lui sono attribuiti poteri di coordinamento e controllo. E, pertanto, può essere individuato come responsabile in solido con colui a cui è stata affidata la responsabilità di procedimento. Tale responsabilità nasce nei casi in cui non ha esercitato i poteri di controllo che spettano ai dirigenti. Il che, nella giurisprudenza della Corte dei Conti, si è tradotto nel principio per cui il dirigente può essere individuato come responsabile, in solido, nel caso in cui sulla base della sua competenza tecnica e della ordinaria diligenza che si deve prestare nella attività amministrativa, non poteva non accorgersi delle irregolarità/illegittimità compiute dal responsabile del procedimento.

Tale forma di responsabilità in solido non si può considerare cancellata, ma solo attenuata, nel caso in cui il dirigente ha delegato la competenza alla adozione del provvedimento finale, sia nella forma della delega che in quella della sua attribuzione al responsabile del procedimento. Infatti, il dirigente deve anche in questo caso svolgere comunque compiti di controllo, compiti che sono connaturati al suo ruolo.

Appare infine opportuno evidenziare che la nuova disposizione per cui il dirigente non può discostarsi dalla proposta del responsabile del procedimento accentua la responsabilità di quest’ultimo nella effettuazione di una istruttoria che risponda pienamente al carattere della legittimità e della regolarità.

IL COMPENSO

Non vi è una forma compenso che obbligatoriamente remunera lo svolgimento della attività di responsabile di procedimento, anche nella ipotesi della attribuzione della competenza alla adozione di provvedimenti a rilevanza esterna. Né, tantomeno, come abbiamo già detto in precedenza, la loro effettuazione può essere subordinata alla erogazione di indennità.

Il CCNL, in particolare quelli dello 1.4.1999 che la ha istituita e quello del 22.1.2004 che la ha rivalutata, prevedono la possibilità di erogare la indennità per “specifiche responsabilità”. Siamo dinanzi ad un compenso che annualmente deve essere compreso in una misura compresa tra 1.000 e 2.000 euro e che può essere erogato a personale appartenente alle categorie B, C e D. La istituzione di questa indennità, la definizione della misura del compenso e la individuazione dei responsabili è rimessa alla contrattazione decentrata. Essa deve, quindi, dare corso alla previsione contrattuale, decidere la quantità di risorse da destinare a questa indennità, fissare la misura, che può ovviamente anche essere differenziata, definire le prestazioni che vanno remunerate ed individuare i destinatari. Entro questo ambito i dirigenti o, nei comuni che ne sono sprovvisti, i titolari di posizione organizzativa la assegneranno.

Nella individuazione degli ambiti entro cui l’indennità deve essere attribuita e dei responsabili la contrattazione decentrata potrà dare tanto una interpretazione estensiva che una restrittiva delle previsioni dettate dalla contrattazione nazionale. Si potrà, cioè ad esempio, spaziare dalla sua attribuzione a tutti i responsabili di procedimento, che prevedere che solo i responsabili di procedimenti complessi possano esserne destinatari, ovvero limitarla solo ai responsabili a cui sia conferito il compito di adottare i provvedimenti a rilevanza esterna. Ovvero si potrà prevedere una differenziazione della misura della indennità sulla base dei compiti effettivamente svolti e/o sulla base della categoria di inquadramento.

I contratti nazionale dedicano una specifica attenzione alle remunerazione di forme di responsabilità specifiche. Per il responsabile del procedimento dei lavori pubblici è prevista una forma di compenso specifica dalla legge n. 109/1994 e successive modifiche ed integrazioni. Essa rimette alla contrattazione decentrata la possibilità di prevedere un compenso, il cui importo massimo è fissato nel 2% del costo dell’opera, da ripartire tra i dipendenti chiamati a svolgere una serie di funzioni specificamente indicate dalla stessa norma (progettazione, direzione lavori, direzione sicurezza, collaudo etc) e tra cui è compresa anche la remunerazione della responsabilità di procedimento. Anche in questo caso la contrattazione decentrata, con una disposizione che deve però essere ripresa da una norma regolamentare adottata dall’ente, deve fissare la misura e gli ambiti di applicazione. Ricordiamo infine che il contratto collettivo nazionale di lavoro ha previsto una indennità di misura ridotta, non superiore a 300 euro annui lordi, che può essere erogata, sulla base delle previsioni dettate dalla contrattazione collettiva decentrata integrativa, in favore dei dipendenti investiti di specifiche responsabilità ed appartenenti alle posizioni di lavoro previste dal contratto nazionale. Cioè una indennità che, in parte almeno, si sovrappone e sostituisce la indennità per specifiche responsabilità previste dal contratto dello 1.4.1999 e che è comunque utilizzabile al fine di remunerare il conferimento di incarichi di responsabilità di procedimento nei settori previsti dal contratto stesso.