LA GESTIONE DELLE RISORSE UMANE, IL RUOLO ED I POTERI DEL DIRIGENTE, LE RELAZIONI SINDACALI, LA VALUTAZIONE, LA RETRIBUZIONE

 

Di Arturo Bianco

INDICE

PREMESSA

CAPITOLO 1: LA GESTIONE DELLE RELAZIONI SINDACALI

CAPITOLO 2: IL SISTEMA PERMANENTE DI VALUTAZIONE

CAPITOLO 3: L’INCENTIVAZIONE DELLA PRODUTTIVITA’

CAPITOLO 4: SISTEMI DI RETRIBUZIONE E FORME DI INCENTIVAZIONE PER OBIETTIVI

 

PREMESSA

Il processo avviato dal DLgs n. 29/1993, testo che è successivamente stato trasfuso nel DLgs n. 165/2001, ha portato alla privatizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici ed alla distinzione delle competenze tra organi politici e dirigenti. Quest’ultima scelta è inoltre contenuta, per gli enti locali, nelle principali norme di riforma che sono state dettate dal 1990 fino ad oggi, vedi in particolare la legge n. 142/1990, il DLgs n. 77/1995, la legge n. 127/1997, la legge n. 265/1999 ed il Dlgs n. 267/2000.

Siamo dinanzi a prescrizioni che continuano ad essere pienamente valide, sia nella loro impostazione di fondo che nelle legittimità, anche oggi e nel prossimo futuro su tutto il territorio nazionale. Sul terreno giuridico, la lettura della riforma del titolo V della Costituzione, che pure non ha espressamente inserito questi tra i temi rimessi alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, ci richiama alla necessità di considerare che siamo dinanzi a temi che possono essere ascritti, per gli enti locali, nel novero delle “funzioni fondamentali”, quindi ricomprese nella competenza legislativa esclusiva dello Stato. E per tutte le PA arriviamo alla stessa conclusione sulla base della attribuzione alla competenza legislativa statale dell’ordinamento civile, nonché sulla base del principio che siamo dinanzi a norme di attuazione di quanto dettato dall’articolo 97 della Costituzione, in particolare per la imparzialità ed il buon andamento della attività amministrativa.

Sul terreno di merito, cioè sulle ragioni che hanno indotto il legislatore ad effettuare tale scelta, occorre considerare che appare sempre più necessario che la gestione delle PA si caratterizzi per il ruolo centrale che deve essere svolto dai dirigenti, cioè da soggetti che sono portatori di una specifica professionalità, non solo di tipo tecnico ma anche di tipo manageriale. Scelta che si collega, in particolare per gli enti locali, allo sviluppo del processo di valorizzazione delle competenze gestionali, in particolare dei comuni, scelta che il legislatore sta portando avanti da tempo attraverso interventi effettuati con la legislazione ordinaria e che è stato ulteriormente rilanciato dalla riforma del titolo V della Costituzione.

Le due scelte di fondo compiute nel DLgs n. 165/2001, e cioè la privatizzazione o contrattualizzazione del rapporto di lavoro e la distinzione delle competenze tra organi politici e dirigenti, sono tra loro strettamente ed indissolubilmente legate. Alla base di tale legame la chiara opzione in direzione della riforma della attività amministrativa, obiettivo che è peraltro anche alla base della legge n. 241/1990 e, in particolare, della valorizzazione del procedimento. Tali scelte sono inoltre collegate dalla attribuzione ai dirigenti di un ruolo centrale nella attività gestionale. Essi svolgono, come sappiamo, tutte le competenze gestionali, anche se ad elevato tasso di discrezionalità politica, e sono direttamente, ed in via esclusiva, responsabili dei risultati raggiunti. Sul terreno della gestione delle risorse umane sono individuati come i soggetti a cui sono attribuiti “le capacità ed i poteri del privato datore di lavoro”, a partire dalla attribuzione del cd jus variandi. Di conseguenza tutti gli atti di gestione, con la esclusione di quelli espressamente indicati dalla legislazione, hanno la natura di atti privatistici, esattamente di atti unilaterali di diritto privato. E, come tali, non necessitano di una specifica motivazione, né devono essere preceduti da una comunicazione di avvio del procedimento; mentre sono per espressa previsione dettata nel nuovo testo della legge n. 241/1990 assoggettati ai vincoli posti per la tutela del diritto di accesso ai documenti amministrativi.

 

 

CAPITOLO 1: LA GESTIONE DELLE RELAZIONI SINDACALI

Nell’ambito della attribuzione ai dirigenti delle capacità e di poteri del privato datore di lavoro, occorre dedicare una specifica attenzione alla gestione delle relazioni sindacali. Siamo dinanzi ad una tematica che assume una notevole importanza e per la cui gestione si richiede una specifica professionalità.

L’importanza di questo fattore è significativamente cresciuto negli ultimi anni. I contratti collettivi nazionali di lavoro, in particolare quelli stipulati a partire dal 1999, cioè dopo la riforma operata dai Dlgs n. 396/1997 e n. 80/1998, si caratterizzano per la significativa valorizzazione del ruolo e del peso della contrattazione decentrata, nonché per la crescita dei suoi margini di autonomia. Occorre ricordare che negli enti locali, come in tutte le Pubbliche Amministrazioni, il ruolo di punta è in questa materia attribuito ai dirigenti, a cui il legislatore attribuisce i ”poteri e le capacità” del privato datore di lavoro. In tale ambito occorre ricomprendere anche la figura del segretario, che svolge compiti di coordinamento dei dirigenti; tale ruolo è da considerare come ulteriormente accresciuto nel caso in cui gli vengono attribuiti i compiti di direttore generale.

Negli enti locali la situazione concreta molto spesso è completamente diversa dal modello ipotizzato dalle norme e di difficile gestione; basta ricordare la presenza ed il rilievo che possono assumere i seguenti fattori:

  1. la diffusa vocazione degli amministratori a ricercare il consenso dei dipendenti;
  2. la assenza di una strategia complessiva di organizzazione e di sviluppo del personale;
  3. la conoscenza spesso poco attenta delle disposizioni contrattuali;
  4. la forza dello spirito di imitazione di esperienze praticate in altri enti locali;
  5. la sostanziale assenza di professionalità esperte nella tecnica delle relazioni sindacali.

Le indicazioni esistenti dall’analisi dei contratti decentrati confermano la sostanziale debolezza delle amministrazioni locali; in particolare si deve sottolineare che:

1)    molto spesso gli oneri sono superiori a quanto previsto dalla contrattazione nazionale;

  • risultano essere disciplinate dai contratti decentrati materie che non sono rimesse alla contrattazione, ma che sono oggetto di altre forme di relazioni sindacali (concertazione ed informazione);
  • molti istituti vengono applicati in modo distorto (basta ricordare le diffuse e non selettive progressioni orizzontali, nonché la erogazione a pioggia delle indennità di produttività e di video terminalisti, l’uso improprio della indennità di disagio, etc);
  • la composizione delle delegazioni trattanti di parte pubblica, spesso largamente caratterizzate dalla presenza di soggetti che sono direttamente e personalmente interessati dagli esiti della contrattazione;
  • non sono utilizzate le forme di flessibilità organizzativa introdotte dai contratti.

La presenza di questo insieme di elementi evidenzia gli esiti complessivamente non soddisfacente a cui è fin qui approdata la gestione delle relazioni sindacali nella gran parte degli enti locali e la assoluta necessità di apportare elementi di correzione e di integrazione.

  • LA TEORIA NEGOZIALE

La negoziazione presuppone l’esistenza di una interdipendenza tra gli attori: ciascuno ha bisogno dell’altro per soddisfare i propri interessi o valori ed ancora essa interviene tra interessi o valori delle parti che sono, almeno in parte, divergenti. Per questa parte utilizziamo ampiamente il lavoro del prof. Lino Codarda, dell’Università di Brescia.

Tali due elementi sono assai importanti, in quanto ci richiamano alla constatazione della “interdipendenza” tra le parti, cioè nessuna è dotata di un potere assoluto ed incondizionato. Le norme sul lavoro pubblico ci ricordano che nelle materie aventi come contenuto la erogazione di trattamenti economici, occorre necessariamente che gli stessi siano oggetto di una specifica e preventiva contrattazione; ma questo non significa che la parte sindacale abbia un potere di tipo assoluto. E’ infatti vincolata al rispetto delle indicazioni contenute nella contrattazione nazionale ed, in ogni caso, la assenza di una norma contrattuale può avere anche effetti negativi prevalentemente per i lavoratori.

Non meno rilevante è l’importanza della seconda considerazione: gli interessi rappresentati nella contrattazione sono, almeno in parte, tra loro divergenti. Quindi, gli interessi del datore di lavoro sono, almeno in parte, divergenti da quelli di cui sono portatori le organizzazioni sindacali.

Sulla base della definizione di Howard Raiffa “si assiste ad un processo negoziale in tutte quelle situazioni in cui due o più parti riconoscono l’esistenza di differenze di interessi o di valori tra di loro, ma intendono o sono costretti a raggiungere un accordo”.

Esistono, in linea teorica, due tipi di negoziazione: distributiva ed integrativa.

La negoziazione distributiva si ha nel momento in cui i negoziatori sono impegnati a distribuire una risorsa limitata e sono portatori di interessi tra loro contrapposti. Si prevede una “somma zero”. Essa si sviluppa intorno ad una cd “zona negoziale”, delimitata dai punti di resistenza dei negoziatori, cioè il minimo di utilità che le parti ricaverebbero comunque, anche in assenza di un accordo. L’unica strategia applicabile è quelle di tipi rivendicativo. In questo tipo di negoziazione due sono gli elementi di comportamento di grande importanza:

  1. cercare di stimare dove si colloca il punto di resistenza della controparte, per ottenere il massimo senza rischiare rotture;
  2. manipolare la percezione della situazione della controparte per indurla a fare la concessione più grande.

La negoziazione integrativa si sviluppa quando i negoziatori sono impegnati nella ricerca di un valore aggiunto per entrambi; si instaura un gioco “a somma variabile”. Due sono le strategie applicabili da parte degli attori: creare valore e rivendicare valore.

In tale ambito matura quello che viene chiamato il paradosso del dilemma del prigioniero, collaborare o defezionare. Ciascun giocatore ha una strategia dominante, cioè da adottare de vuole essere razionale. Ma se tutti e due i giocatori utilizzano la loro strategia dominante, il risultato è per entrambi peggiore di quanto otterrebbero violando il principio della razionalità. Le soluzioni, cioè il punto di equilibrio, sono raggiungibile attraverso la fiducia e l’iterazione del gioco. Laddove tale tipo di negoziati durino nel tempo gli attori possono rinunciare alla massimizzazione dei loro interessi nel breve termine in virtù di quelli di lungo periodo.

Il potere negoziale dipende dalla “struttura delle interdipendenze”: esso è infatti più elevato in capo ai soggetti che controllano risorse essenziali per l’altra parte e che può decidere di ritirare a proprio arbitrio. Ed ancora esso è più elevato nel soggetto che è in grado di suscitare aree di incertezza nell’altra parte; per suscitare aree di incertezza si deve intender la rottura delle regole di reciprocità attraverso il ritiro o la indisponibilità della propria prestazione. Alla luce di queste considerazioni si deve arrivare alla conclusione che il potere negoziale e la negoziazione siano un “gioco sulle regole”: il potere viene esercitato minacciando la trasgressione delle regole ed imponendo così l’avvio di un processo di ridefinizione delle nuove regole. In tale ambito acquista un grande rilievo concreto la determinazione con cui il soggetto mette in campo le proprie iniziative, cioè esercita il proprio potere negoziale; la determinazione è correlata alla capacità di sapere valutare le conseguenze delle proprie scelte. Ed un particolare rilievo acquista la capacità di sapere fare i conti con le proprie divisioni interne, avviando su tale fronte –ove necessario- una negoziazione interna, che si connette al negoziato interno.

Le regole negoziali sono definite dalle parti sulla base dell’equilibrio delle convenienze; mentre le regole normative sono organizzate gerarchicamente. In tale ambito si possono richiamare regole utilizzate con altri soggetti. Il potere negoziale non è legato esclusivamente alla minaccia dell’uso della forza: si possono richiamare a proprio vantaggio norme e principi più generali a cui la controparte, a pena di danni e/o ritorsioni maggiori, non può contravvenire. Non di minore rilievo è la capacità creativa di mobilitare a proprio vantaggio dei principi di carattere generale.

  •  INDICAZIONI OPERATIVE

Il processo negoziale può essere distinto in tre fasi: strutturazione strategica; fase tattica e soluzione del gioco negoziale

  • Nella fase della strutturazione strategica si devono definire: i temi che entrano a far parte della trattativa, i partecipanti, le risorse attivabili, le aree di incertezza, le possibili soluzioni. Per la definizione dell’agenda occorre avere chiaro che siamo dinanzi ad un momento conflittuale. Tale definizione può avvenire sia in sede pregiudiziale che nel corso del negoziato; per i partecipanti, occorre mettere in conto le conseguenze delle scelte sui temi da inserire; per le risorse attivabili si devono considerare le conseguenze delle possibili convergenze di soggetti esterni; per le aree di incertezza diventa molto rilevante la capacità di sapere attivare un sistema di alleanze con soggetti esterni; non minore è la importanza di sapere prefigurare le possibili soluzioni ed i possibili scambi.
  • Nella fase tattica le parti esplorano la possibilità concreta di dare soluzioni ai conflitti, il che si realizza sia scambiandosi informazioni ed agendo concretamente, in particolare attraverso la prefigurazione di scenari e l’impegno attivo a perseguire soluzioni. In tale fase è opportuno distinguere tra comunicazioni non impegnative, cioè scambi di considerazioni e valutazioni, e comunicazioni impegnative, con cui si comunicano le proprie intenzioni negoziali.
  • La terza fase è costituita dalla soluzione del gioco negoziale, cioè dalla proposta di soluzione conveniente per le due parti, o –quantomeno- meno negativa delle conseguenze derivanti dal mancato accordo o dalla assunzione dell’onere di sancire la rottura. Essa deve tenere conto sia dei negoziati interni che di quelli esterni. Essa non vuole automaticamente dire che vengono risolti i problemi oggetto del negoziato, cioè che non necessariamente viene data una risposta ottimale alle esigenze da cui è scaturito il conflitto. Un accordo troppo penalizzante per una parte, ad esempio, non soddisfa in genere al requisito della stabilità dell’accordo.

Nella negoziazione vi sono quattro essenziali principi di conduzione di una trattativa:

  1. separare le persone dai problemi;
  2. concentrarsi sugli interessi e non sulle posizioni, cioè capire le ragioni della controparte, adottando anche al riguardo tutte le forme di comunicazione non impegnativa che si rendono necessarie;
  3. inventare soluzioni vantaggiose per entrambe le parti, cioè impostare il negoziato come un gioco a somma variabile e dare luogo a soluzioni creative. Si deve, al riguardo, tenere conto delle differenze tra gli attori per l’ordine di preferenza degli obiettivi, le stime di probabilità, il grado di propensione al rischio e le preferenze rispetto al tempo;
  4. insistere su criteri oggettivi, quali il valore di mercato, i precedenti, il giudizio scientifico, gli standard professionali, l’efficienza, gli standard morali, la tradizione, le possibili decisioni di un tribunale e la parità di trattamento.

I comportamenti consigliati sono i seguenti:

  • porre molte domande per comprendere bene le esigenze e gli interessi dell’altra parte;
  • effettuare brevi sintesi per definire lo stato della discussione ed i punti su cui c’è un accordo;
  • iniziare ad esporre i motivi prima di esprimere il disaccordo;
  • segnalare anticipatamente il comportamento successivo;
  • dimostrare attenzione all’interlocutore;
  • dimostrare coinvolgimento;
  • esprimere considerazioni sulle proposte e sui comportamenti degli interlocutori, non sugli interlocutori;
  • non utilizzare espressioni irritanti;
  • non fare contro proposte;
  • evitare di entrare in spirali difesa/attacco;
  • avere un chiaro indirizzo politico, il che permette una riflessione sulla strategia organizzativa generale dell’ente, obbliga i politici a ragionare sull’impatto della contrattazione collettiva, favorisce la condivisione degli obiettivi, rafforza la delegazione trattante, favorisce una maggiore elasticità, responsabilizza la delegazione trattante, indica un atteggiamento attivo da parte dell’amministrazione, rafforza la capacità di elaborazione autonoma dell’ente. Essa deve essere elaborata con la partecipazione di tutte le componenti dell’amministrazione, politici e dirigenti, e la sua pubblicizzazione è da auspicare;
  • arrivare al tavolo avendo elaborato propose su tutti i temi in discussione;
  • stabilire priorità;
  • anticipare ed esplorare i possibili obiettivi sindacali;
  • preparare una specifica strategia da adottare al tavolo negoziale;
  • attribuire ruoli precisi ai componenti ed al capo delegazione.

Nel settore degli enti locali occorre inoltre dedicare una specifica attenzione, sulla base delle attuali regole contrattuali, alla definizione delle risorse da destinare al fondo per la contrattazione, sulla base dei chiari limiti posti dalla contrattazione nazionale.

Ed ancora, avere ben cura di non superare i paletti (in termini di materie e di soluzioni) posti sempre dalla contrattazione nazionale, in particolare per ciò che riguarda la distinzione tra risorse stabili e risorse variabili.

 

CAPITOLO 2: IL SISTEMA PERMANENTE DI VALUTAZIONE

Con le nuove regole introdotte dal legislatore negli ultimi anni e, soprattutto, con i contratti che si sono succeduti dal 1999 ad oggi, la valutazione del personale è diventata per gli enti locali uno degli aspetti fondamentali dell’esercizio dell’attività gestionale. In particolare essa diventa una delle attribuzioni caratterizzanti il ruolo dirigenziale.

“A questa responsabilità nessun “capo” può sottrarsi, essendo per definizione e per espresso contenuto di ruolo il diretto responsabile delle risorse consegnategli e, nell’ambito di tutte queste risorse, prime per importanza e strategicità, quelle di “personale” a lui affidate per il raggiungimento di specifici risultati” sottolineano Arturo Bianco, Amedeo di Filippo e Marco Laezza nel volume “La gestione del personale degli enti locali” (Maggioli editore, 1999).

Occorre subito evidenziare lo stretto nesso che intercorre tra la attività di valutazione e le ampie forme di flessibilità introdotte nella gestione del personale. Tra esse acquistano un peso particolare le nuove regole per la valorizzazione della produttività e l’ampliamento del peso del trattamento economico accessorio, in particolare per i dirigenti ed i responsabili, nonché la progressione economica orizzontale, strumento che per molti aspetti si può considerare come quello di maggiore rilievo.

La valutazione costituisce un momento centrale della gestione delle risorse umane e, in tale ambito, assolve a rilevanti funzioni di supporto concreto ed operativo. In particolare, essa costituisce uno strumento per la verifica delle attività svolte e offre un concreto aiuto al cambiamento ed al miglioramento della attività amministrativa.

Le norme contrattuali prevedono che negli enti si dia corso ad un sistema permanente di valutazione. Esso si articola, per i dirigenti, nel sistema di pesatura degli incarichi, a cui è connessa la quantificazione della indennità di posizione, e nel sistema di valutazione delle attività svolte dai dirigenti ai fini della erogazione della indennità di risultato. Si articola nei seguenti momenti, per ciò che riguarda il personale:

  • Sistema di pesatura delle posizioni organizzative, finalizzato alla quantificazione della retribuzione di posizione per i titolari di posizione organizzativa. Tale sistema deve essere adottato tanto negli enti con i dirigenti, in cui tali incarichi sono conferiti dai dirigenti, che in quello senza dirigenti, realtà in cui il conferimento della titolarità di posizione organizzativa remunera la attribuzione di incarichi dirigenziali da parte del sindaco ed in cui le relative risorse non sono prelevate dal fondo per la contrattazione decentrata, ma sono poste a carico del bilancio dell’ente;
  • Sistema di pesatura delle alte professionalità, finalizzato alla quantificazione della retribuzione di posizione per i dipendenti a cui sono conferiti incarichi di alta professionalità. Tale sistema deve essere adottato tanto negli enti con i dirigenti che in quelli che ne sono sprovvisti;
  • Sistema per la misurazione dei risultati raggiunti dai dipendenti cui sia stata attribuita la titolarità di posizioni organizzativa e/o degli incarichi di alta professionalità, finalizzato alla determinazione della retribuzione di risultato da attribuire ai titolari di posizione organizzativa;
  • Sistema per la valutazione dei dipendenti ai fini del riconoscimento della progressione economica orizzontale all’interno della categoria;
  • Sistema per la valutazione delle prestazioni dei dipendenti ai fini del riconoscimento della indennità di produttività da corrispondere a fronte del raggiungimento degli obiettivi assegnati.

Siamo, come si vede, dinanzi ad un sistema che si applica a tutti i livelli, posto che anche i segretari ed i dirigenti sono oggetto di valutazione e che anche ad essi sono posti degli obiettivi da raggiungere. Possiamo cioè dire che la logica degli obiettivi costituisce il tratto caratterizzante del modello che presiede allo svolgimento della attività amministrativa.

Le norme contrattuali vincolano la adozione del sistema permanente di valutazione del personale e di quello dei dirigenti alla utilizzazione di specifiche procedure di relazione sindacale.

In particolare:

1) sono oggetto di contrattazione decentrata integrativa a livello di ente :

  1. a) i criteri generali relativi ai sistemi di incentivazione del personale sulla base di obiettivi e programmi di incremento della produttività e di miglioramento della qualità del servizio; i criteri generali delle metodologie di valutazione ed i criteri di ripartizione delle risorse destinate alle finalità di cui all’art. 17, comma 2, lett. a) del CCNL 1 aprile 1999 (art. 4 c. 1, lett, B e c. 3,; vedi anche l’articolo 18 del CCNL 1 aprile 1999, per come sostituito dall’articolo 37 del CCNL 22.1.2004). Su questi aspetti ricordiamo che è materia di concertazione la metodologia permanente di valutazione;
  2. b) il completamento e l’integrazione dei criteri per la progressione economica all’interno della categoria (art. 16, c. 1, CCNL 31 marzo 1999 e art. 4 c. 3, CCNL 1 aprile 1999);
  3. c) le modalità di ripartizione delle eventuali risorse aggiuntive per il finanziamento della progressione economica e per la loro distribuzione tra i fondi annuali di cui all’art. 14 (art. 16, c. 1, CCNL 31 marzo 1999 e art. 4 c. 3, CCNL aprile 1999).

2) Sono oggetto di informazione ed eventualmente di concertazione sindacale (art. 16, c. 2, lett. B, C e D del CCNL 31 marzo 1999 e art. 7 c. 2, CCNL 1 aprile 1999):

  1. a) la valutazione delle posizioni organizzative e delle alte professionalità, ovviamente in termini di carattere generale, e la relativa graduazione delle funzioni;
  2. b) il conferimento degli incarichi relativi alle posizioni organizzative e delle alte professionalità, ovviamente in termini di carattere generale, e la relativa valutazione periodica;
  3. c) la metodologia permanente di valutazione di cui all’art. 6 del CCNL 31 marzo 1999.

2.1 LA VALUTAZIONE DEL PERSONALE

La valutazione del personale, per questa parte attingiamo largamente a Arturo Bianco, Amedeo di Filippo e Marco Laezza nel volume “La gestione del personale degli enti locali” (Maggioli editore, 1999), si può definire come la formulazione di: “un giudizio sistematico del valore di un individuo – con riguardo alla sua prestazione sul lavoro e al suo potenziale di sviluppo – per l’organizzazione di cui fa parte, espresso periodicamente, secondo una determinata procedura, da una o più persone appositamente incaricate, che conoscono l’individuo stesso e il suo lavoro”.

Dalla definizione data si evince che la caratteristica essenziale della corretta attività di valutazione è la sistematicità.

Attività sistematica di valutazione vuol dire esprimere giudizi secondo procedure definite e controllate, basate su premesse teoriche e metodologiche precise, tramite l’utilizzo di fattori predefiniti e formulate con l’impiego di un linguaggio e con tecniche comuni a tutti i valutatori.

La sistematicità del giudizio è, allo stesso tempo:

  • Un’esigenza per l’organizzazione;
  • Un diritto per il singolo individuo;
  • Una responsabilità (gestionale) per i capi.

Lo scopo preciso della valutazione sistematica del personale è, quindi, quello di tracciare per ogni persona un profilo completo e accurato del suo valore, attuale e potenziale.

Solo con l’approvazione del C.C.N.L. sul nuovo ordinamento professionale è fatto obbligo, (vedi art. 6) ad ogni ente di “adottare metodologie permanenti per la valutazione delle prestazioni e dei risultati dei dipendenti, anche (il che vuol dire “non solo”) ai fini della progressione economica di cui al presente contratto…”.

Questo passaggio contrattuale, per le sue implicazioni culturali e gestionali, è da considerarsi, senz’altro, come l’aspetto chiave dell’intero nuovo ordinamento professionale.

I fattori di valutazione si circoscrivono nettamente per delimitarsi agli specifici aspetti della prestazione lavorativa e del comportamento organizzativo.

La valutazione del personale non è una valutazione delle persone quanto una valutazione dei comportamenti organizzativi. La valutazione del personale, conseguentemente, diventa una leva di gestione finalizzata ad indirizzare i comportamenti delle persone agli obiettivi dell’Ente.

L’utilizzo di questo strumento, come di tutti gli altri strumenti che caratterizzano l’attività di gestione, è peculiarità e specifica attribuzione dei ruoli di capo.

Tutte le organizzazioni, attraverso i loro presidi gerarchici – i capi -, esercitano da sempre l’attività di valutazione del proprio personale, cioè esprimono un giudizio sulle singole capacità, sui meriti e sulle caratteristiche dei propri dipendenti, solo che non tutte lo fanno secondo le stesse modalità.

Per alcuni enti, l’attività di valutazione è un’attività formalizzata, per altri enti non lo è. L’alternativa, quindi, non è nel fare o nel non fare la valutazione del personale, tutte le organizzazioni, infatti, la fanno, quanto nel farla secondo un criterio di sistematicità e metodo oppure farla empiricamente, in altre parole, senza metodo. Una comparazione fra gli aspetti derivanti dall’impostazione della valutazione in termini formalizzati piuttosto che empirici può così essere sintetizzata:

Se la valutazione è FORMALIZZATA:

  • Si potrà operare in un sistema caratterizzato dall’applicazione di una METODOLOGIA, frutto di studi e di esperienze consolidate, e dall’uso di una STRUMENTAZIONE (manuale di valutazione, schede di valutazione, modulistica varia);
  • La valutazione sarà inserita e caratterizzata da un’ottica di processo, contraddistinta cioè dalla PERIODICITÀ’ e dalla CONTINUITÀ’(tutti hanno la certezza di essere valutati e ne conoscono le modalità);
  • I risultati saranno OMOGENEI, anche se fatte da valutatori diversi e quindi CONFRONTABILI sia nel tempo (valutazione dell’anno n con le valutazioni degli anni successivi), che nello spazio (valutazione di una partizione strutturale con le valutazioni di tutte le altre unità di struttura)
  • Si avranno sicuramente sempre MINORI DISTORSIONI valutative dovute al continuo addestramento e affinamento sia dei valutatori sia del sistema;
  • Possibilità di inserire i dati della valutazione in un SISTEMA GESTIONALE più ampio, che consenta in pratica di utilizzare queste informazioni anche per altre finalità gestionali (impostazione dei piani di formazione, percorsi di sviluppo del potenziale, piani di sostituzione, ecc.).

Se la valutazione NON E’ FORMALIZZATA:

  • Si opererà in un ambiente caratterizzato dalla estrema SOGGETTIVITÀ’,
  • La valutazione sarà caratterizzata e contraddistinta dalla SALTUARIETÀ’ e dalla CASUALITÀ’ (nessuno ha la certezza di essere valutato, né del come, né del quando);
  • Le valutazioni NON SARANNO OMOGENEE, quindi non sarà possibile confrontarle fra loro, sia nel tempo sia nello spazio;
  • Si avranno sempre MAGGIORI DISTORSIONI valutative;
  • Non sarà possibile inserire i dati della valutazione in un SISTEMA GESTIONALE più ampio, che consenta in pratica di utilizzare queste informazioni, anche per altre finalità gestionali (fabbisogni formativi, piani di mobilità, tavole di rimpiazzo, ecc.)

I principali obiettivi della valutazione sono relativi a:

  • Disporre di una base imparziale e oggettiva per adeguare il singolo aspetto retributivo al “valore” della Posizione occupata, determinando la relativa indennità (valutazione delle Posizioni);
  • Ottenere dati obiettivi e omogenei su tutto il personale, anche al fine di una migliore utilizzazione d’ogni risorsa umana: per attuare, in sostanza, quelle politiche di selezione e di acquisizione delle Risorse umane, di mobilità e di gestione dei trasferimenti che concorrono a definire “la politica del personale” di ogni singolo ente;
  • Disporre di elementi oggettivi e trasparenti per attuare delle corrette politiche di mobilità verticale e di progressione economica nonché d’applicazione dei sistemi incentivanti previsti dai C.C.N.L., (valutazione delle Prestazioni);
  • Disporre di un inventario delle capacità e delle potenzialità del personale per migliorare l’organizzazione e l’efficienza, nonché per far fronte in modo tempestivo e adeguato ad ogni futura necessità di variazione e/o di mutamento organizzativo (valutazione del Potenziale);
  • Rilevare i fabbisogni di aggiornamento, addestramento e di formazione, dati dalla differenza fra il livello delle conoscenze, delle abilità e delle capacità rilevate individualmente e quelle richieste o necessarie dalla posizione occupata o di futura destinazione;

Esistono poi altre finalità, non primarie, ma non per questo meno importanti, che i sistemi di valutazione formalizzati attivano in termini di ricaduta positiva. Queste sono:

  • La possibilità di aiutare lo sviluppo individuale attraverso la continua tensione al miglioramento che il personale attua consapevolmente quando è conscio che il singolo rendimento e la personale prestazione, siano gli stessi negativi o positivi, saranno valutati sistematicamente e periodicamente;
  • Contribuire a migliorare il morale aziendale, determinandosi nei dipendenti la convinzione della serietà con cui la Direzione s’interessa concretamente, e in modo trasparente, al personale;
  • Assicurare che i buoni elementi non saranno dimenticati (la valutazione formalizzata “toccherà” sempre tutti, riconoscendo i singoli meriti);
  • Stimolare la linea gerarchica dei capi a seguire, con metodo e con attenzione, ogni collaboratore, così da poter sempre esprimere un giudizio completo e rispondente alle reali “performances”;
  • Aiuta, infine, la Direzione a valutare i capi, in altre parole a giudicare la lealtà, la severità o l’indulgenza con cui ogni singolo capo giudica i propri collaboratori.

Inoltre, vi è da porre la dovuta attenzione al fatto che il desiderio di vedere considerato il proprio lavoro e di averne un riconoscimento in termini d’attestazione dei successi ottenuti, ovvero di essere stimati per i propri meriti, sono alcune fra le più forti motivazioni dell’uomo al lavoro.

L’assenza di una valutazione sistematica genera nel personale la convinzione, più o meno fondata, che i giudizi sui dipendenti, con le relative ripercussioni in termini di carriera e di sviluppo, siano gestiti in modo quantomeno “non lineare”, che questi giudizi siano, in pratica, attribuiti secondo parametri e valutazioni troppo soggettive ed empiriche che sfuggono a logiche d’oggettività, di trasparenza, di merito.

Questo contribuisce alla creazione di un generalizzato malumore, di un senso di sfiducia nell’Amministrazione dell’Ente, di un costante motivo di scontento, situazioni tutte che costituiscono un mix formidabile per il mantenimento d’alti livelli di conflittualità, latente e manifesta e, cosa ben più preoccupante, ingenera il contesto ideale in cui gli inetti hanno la possibilità di mascherarsi e i capaci trovano la possibilità di essere mortificati.

La valutazione sistematica può invece concorrere, per le sue caratteristiche, alla creazione di un clima aziendale positivo, disteso ed efficiente; ognuno e conscio, infatti, che sarà valutato per le sue prestazioni e per i suoi meriti, e vede che lo stesso principio e uniformemente applicato nell’organizzazione.

 

CAPITOLO 3: L’INCENTIVAZIONE DELLA PRODUTTIVITA’

La erogazione della indennità di produttività è una materia che è stata oggetto di innovazioni con il contratto collettivo nazionale di lavoro del 22.1.2004. Tali innovazioni, senza modificare quanto disposto sulle regole per la erogazione da parte del CCNL 1.4.1999, ne hanno modificato le parti relative al maturare delle condizioni in base alle quali essa può essere erogata ed hanno in particolare voluto sottolineare il carattere meritocratico che deve ispirare la utilizzazione di tale istituto.

Sulla base delle nuove regole, la erogazione della produttività è oggi sottoposta a rigide clausole:

1)     si deve realizzare un effettivo incremento della produttività,

2)     si deve concretizzare un miglioramento quali-quantitativo dei servizi,

3)     si devono raggiungere risultati aggiuntivi apprezzabili rispetto al risultato atteso dalla normale prestazione lavorativa.

L’erogazione del compenso di produttività, ricorda l’Aran in risposta ai quesiti posti, è sottoposta ad una preventiva valutazione dei risultati e delle prestazioni che è effettuata dai dirigenti.

Il primo passaggio, preliminare alla stessa valutazione effettuata dai dirigenti, è costituito dalla verifica del livello di conseguimento degli obiettivi indicati nel PEG o negli altri strumenti di programmazione, verifica che è effettuata dal servizio di controllo interno, cioè in linea generale si deve intendere che tale compito è attribuito al nucleo di valutazione. Fermo restando che sulla materia della concreta individuazione del soggetto a cui sono attribuiti negli enti i compiti di controllo interno e sulla definizione delle regole che presiedono alla sua attività, vi è una ampia autonomia statutaria e regolamentare attribuita ai singoli enti. Infine, i dirigenti la erogano sulla base di una specifica attività di valutazione.

Il CCNL del 22.1.2004 prevede che non è consentita la sua erogazione a pioggia, cioè sulla base di automatismi comunque denominati.

Tale divieto si doveva considerare implicito sulla base delle disposizioni contrattuali già esistenti, per cui siamo dinanzi ad una sua mera esplicitazione. Infatti, in questi anni abbiamo avuto alcune sentenze della Corte dei Conti che hanno riconosciuto il maturare di una responsabilità erariale in capo agli enti che hanno disposto la erogazione a pioggia della indennità di produttività. A nulla è valsa la considerazione che tali risorse sono comunque comprese nel fondo per la contrattazione decentrata; la erogazione a pioggia determina a giudizio della Corte dei Conti un danno in quanto dispone di fatto un mero aumento dello stipendio e non è collegata a prestazioni realmente aggiuntive. Si considerano a pioggia, tra gli altri, i seguenti criteri: presenza, categoria etc.

Sulla base delle prescrizioni introdotte dal CCNL 22.1.2004 non si deve provvedere alla erogazione della produttività a dipendenti che non siano effettivamente in servizio. Ed ancora, la sua erogazione deve essere limitata si dipendenti che hanno effettivamente raggiunto i risultati ad essi assegnati.

Non è possibile introdurre in sede di contrattazione decentrata nessuna diversa previsione, neppure se essa riguardi la attribuzione di una quota della produttività teoricamente spettante ad un dipendente di quella categoria.

Le norme del contratto nazionale hanno carattere vincolante e le eventuali diverse previsioni contenute nei contratti decentrati sono nulle e non possono essere applicate, in quanto in contrasto con le previsioni del CCNL.

La concreta erogazione della indennità di produttività è collegata alla valutazione che deve essere effettuata dai dirigenti o, negli enti che ne sono sprovvisti, dai responsabili.

Tale attività deve essere svolta sulla base dei criteri che sono definiti in linea generale nel contratto nazionale sul nuovo ordinamento professionale. Tali criteri sono oggetto di integrazione in sede di contrattazione collettiva decentrata. Costituisce infine materia di concertazione la definizione della scheda che applica le disposizioni contrattuali. E’ evidente che i criteri di valutazione definiti in sede di contratto decentrato devono essere coerenti con quelli selettivi e meritocratici contenuti nel contratto nazionale.

Non sono oggetto di relazioni sindacali le concrete attività di valutazione svolte dai singoli dirigenti e responsabili.

Gli enti devono definire la misura del salario di produttività. Tale quantificazione deve essere fatta in sede di contrattazione decentrata utilizzando la parte variabile delle risorse decentrate e, se si vuole, anche una quota della parte stabile.

Gli enti fissano i criteri di ripartizione del salario di produttività tra le varie articolazioni organizzative e/o centri di responsabilità o di costo. In tale ripartizione possono essere utilizzati esclusivamente criteri automatici, quali ad esempio il numero dei dipendenti, ovvero criteri discrezionali, quali ad esempio il rilievo delle attività. Si possono combinare tale fattori ovvero si può utilizzare anche gli esiti della pesatura delle posizioni organizzative. Altro punto che può essere introdotto è costituito dalla utilizzazione delle quote residue o non utilizzate, ad esempio per mancato raggiungimento in misura piena degli obiettivi. Riutilizzazione che può essere disposta, ad esempio, a vantaggio dei dipendenti delle articolazioni organizzative che hanno pienamente raggiunto gli obiettivi.

Una parte centrale nella disciplina della erogazione della indennità di produttività è costituita dalla definizione degli obiettivi. Essi possono essere strettamente collegati a quelli posti al dirigente o responsabile, talchè si stabilisca nell’ambito dell’ufficio un legame stretto ed una sorta di possibile “circuito virtuoso”.

Anche per questi obiettivi valgono le regole di carattere generale che presiedono alla definizione degli obiettivi: essi devono essere chiari, precisi, concreti ed effettivamente misurabili.

Devono concretamente consentire di raggiungere risultati aggiuntivi ed apprezzabili rispetto alle normali prestazioni di lavoro.

Essi devono essere comunicati in anticipo ai dipendenti, anzi possibilmente gli stessi devono concorrere alla loro definizione sulla base di una specifica proposta.

Il contratto collettivo nazionale di lavoro del 22 gennaio 2004 non parla in alcun modo di progetti di produttività o di piani di lavoro. Per cui possiamo sicuramente considerare tali strumenti, pure largamente utilizzati da molti enti, oggi al di fuori delle previsioni contrattuali.

In particolare, occorre ricordare che gli enti non possono disporre la erogazione di trattamenti accessori a fronte di specifici progetti o attività aggiuntive. Gli enti possono integrare le risorse decentrate, parte variabile, con risorse aggiuntive connesse alla attivazione di nuovi servizi e/o al miglioramento o ampliamento di quelli esistenti. Un percorso che cioè tende ad assicurare comunque una risposta alla esigenza di disporre forme aggiuntive di trattamento economico per la erogazione di servizi aggiuntivi.

 

CAPITOLO 4: SISTEMI DI RETRIBUZIONE E FORME DI INCENTIVAZIONE PER OBIETTIVI

Con il nuovo contratto del personale degli enti locali acquistano un peso centrale gli elementi di valutazione, sia delle prestazioni che del potenziale che delle posizioni, e diventa sempre più evidente il loro stretto collegamento con il trattamento economico accessorio. Nel volume di Arturo Bianco, Amedeo Di Filippo e Marco Laezza “La gestione del personale degli enti locali” (Maggioli editore 1999) leggiamo che “la valutazione delle Prestazioni costituisce, insieme alla valutazione del Potenziale, l’aspetto “soggettivo” di un generale sistema per la valutazione del Personale. L’obiettivo di questa valutazione è quello di individuare come il singolo individuo, in una visione di “gioco di squadra”, ha contribuito al raggiungimento dei risultati organizzativi. L’oggetto della valutazione è costituito, quindi, dal giudizio circa il “valore relativo” del lavoro svolto dalla persona che occupa una Posizione organizzativa, vale a dire del “valore” complessivo del livello di compiti svolti, di risultati ottenuti e di comportamenti mantenuti.

3.1 LA DEFINIZIONE DEL CONCETTO DI PRESTAZIONE

Per “Prestazione” s’intende: “quello che la persona ha fatto, e come lo ha fatto, in un periodo di tempo delimitato, rispetto ai compiti assegnati e ai risultati che l’organizzazione si attende dalla sua attività di lavoro.”

Quindi, si tratta di definire quali sono stati i suoi risultati quantitativi e qualitativi in un certo periodo, quale è stato il livello di preparazione professionale e di competenza dimostrato nel suo lavorare, quali degli obiettivi prefissati ha raggiunto e in che misura.

In sostanza, si tratta di verificare, prima, (fase di riscontro), e di valutare, dopo, (fase del giudizio), in quale misura e con quali modalità l’individuo ha svolto il suo “ruolo” (ruolo = comportamento esplicitato dalla persona sulla Posizione) nel periodo in esame.

Attraverso la valutazione si attiva quindi un processo periodico di determinazione di FATTI             (PRESTAZIONI, quantitative e qualitative, COMPORTAMENTI), e di CARATTERISTICHE SOGGETTIVE (CAPACITA’ e ATTITUDINI), svolto in maniera sistematica, sulla base di criteri uniformi e di una procedura determinata.

Perché il giudizio porti ad una valutazione corretta e obiettiva, occorre che lo stesso si fondi esclusivamente su dati e fatti relativi a questi eventi (attività, comportamenti, risultati), e non su opinioni personali o impressioni generiche.

3.2 LE FINALITA’ DELLA VALUTAZIONE DELLE PRESTAZIONI

All’attività di valutazione delle Prestazioni, ognuna delle componenti organizzative: l’Ente o Azienda, i valutatori (che sono i “capi”), e i valutati (che sono i dipendenti interessati), abbina specifici e propri obiettivi. Questi obiettivi non sono in contrapposizione, anzi, in una ottica di sviluppo queste tre angolazioni si integrano per concorrere a definire una moderna e professionale gestione delle risorse umane.

Ma quali possono essere questi singoli obiettivi?

 

  • Gli Obiettivi “aziendali”:
  • Migliorare l’orientamento ai risultati aziendali attraverso il maggior coinvolgimento e il continuo chiarimento delle responsabilità e dei compiti singolarmente attribuiti;
  • Favorire, attraverso la rilevazione sistematica e oggettiva delle prestazioni, un sistema di gestione e sviluppo delle Risorse Umane coerente con le politiche aziendali favorendo, in modo particolare, la definizione di uno stile di gestione attraverso:
  • La responsabilizzazione dei ruoli di “capo”;
  • L’omogenea parametrazione dei giudizi, effettuata attraverso la scheda di valutazione;
  • La comunicazione e la discussione dei risultati con gli interessati;
  • Rafforzare l’efficacia delle relazioni interne attraverso comunicazioni trasparenti e continue sui contenuti e sui risultati del lavoro;
  • Migliorare l’utilizzo delle risorse professionali;
  • Raccogliere indicazioni per l’attività di addestramento e formazione;
  • Razionalizzare e rendere più oggettivo il sistema di incentivazione economica.

 

  • Gli Obiettivi del “valutatore”:
  • Individuare i punti forti e i punti deboli della propria unità organizzativa, migliorandone i risultati, attraverso la continua analisi del rapporto tra obiettivi e risorse professionali;
  • Rendere i rapporti capo/collaboratori meno paternalistici e più professionali;
  • Esercitare al meglio le funzioni di coordinamento, guida e sviluppo dei collaboratori ottenendone, altresì, il coinvolgimento sui programmi di lavoro;
  • Verificare il proprio stile di gestione e la capacità d’essere “leader”.

 

  • Gli Obiettivi del “valutato”:
  • Migliorare la conoscenza dei compiti relativi al proprio ruolo;
  • Partecipare alla definizione delle modalità operative necessarie per raggiungere i risultati attesi;
  • Misurarsi con le aspettative del superiore (ottenendo risposta al bisogno di riconoscimento);
  • Conoscere i criteri e i risultati della valutazione della propria prestazione professionale per poterla verificare e migliorare;
  • Rispondere al bisogno d’appartenenza sentendosi membro attivo e integrato dell’Ente;
  • Trovare occasione per parlare dei problemi attuali e di programmi futuri (autorealizzazione)

La valutazione per obiettivi costituisce il metodo per determinare, nel modo più oggettivo possibile, il livello di prestazione dell’individuo con diretto riferimento al “cosa” ha fatto, ovvero con diretto riferimento ai risultati conseguiti.

Le premesse fondamentali per una corretta applicazione del metodo sono: una corretta definizione del campo di responsabilità “istituzionale”, riferita alla Posizione ricoperta dal soggetto da valutare, ovvero una definizione dei compiti e degli obiettivi prioritari, direttamente collegati allo scopo primario di costituzione della Posizione (perché esiste la Posizione? Cosa deve garantire? Quale contributo deve assicurare? Con quali modalità?)

Ed ancora, una corretta definizione del campo di responsabilità “specifiche”, attribuite alla Posizione in relazione a compiti e obiettivi riferiti ad attività richieste da particolari esigenze organizzative.

Questi due aspetti costituiscono la situazione strutturale “oggettiva”, e di partenza, da cui si avvia tutto il processo di definizione degli obiettivi di periodo, processo che vede, appunto, in questa situazione organizzativa lo “standard” di riferimento.

La valutazione per obiettivi prevede che il giudizio venga espresso rispetto ad una serie di obiettivi concordati preventivamente tra superiore e dipendente. In realtà, il capo non giudica, ma constata insieme al proprio collaboratore sia gli stati d’avanzamento verso il risultato sia il livello di raggiungimento degli obiettivi prefissati, cioè se i risultati attesi sono stati realizzati e, se non lo sono stati, insieme analizzano e identificano cause e ragioni della non completa loro realizzazione.

L’attenzione si sposta dal giudizio di merito alla comune gestione del “processo di valutazione”, degli obiettivi e dei risultati.

Quello che qualifica l’individuo, insomma, sono i risultati, non il giudizio dato dal capo.

3.3 LA INCENTIVAZIONE PER OBIETTIVI

Il contratto prevede varie forme di incentivazione del trattamento economico accessorio legato al raggiungimento di specifici obiettivi.

  • Per i dirigenti ed i responsabili a cui sono attribuiti gli incarichi di posizione organizzativa, abbiamo la corresponsione di una “indennità di risultato”. Essa varia dal 10 al 25% della indennità di posizione e la sua corresponsione è subordinata all’accertamento dell’effettivo raggiungimento dei risultati contenuti nel piano degli obiettivi approvato dalla giunta unitamente al PEG. Si richiede l’istituzione e l’attivazione del nucleo di valutazione ed il suo effettivo intervento.
  • Per i dipendenti esso è previsto dai già citati articoli 15 e 17 del contratto, come nuova forma “principe” di salario incentivante la produttività ed è subordinato all’effettivo raggiungimento dei risultati. Essi vengono accertati dai dirigenti in sede di valutazione dei dipendenti ed è previsto l’intervento del nucleo di valutazione per l’accertamento effettivo del complessivo raggiungimento dei risultati indicati.

Siamo quindi dinanzi a meccanismi e regole del tutto nuovi rispetto al passato. Meccanismi e regole che assumono con chiarezza le seguenti scelte di fondo:

  • fare crescere il peso del trattamento economico accessorio rispetto a quello fondamentale. Tale scelta è comune a tutte le categorie e si presenta in modo particolarmente marcato per i dirigenti e/o quadri;
  • collegare il trattamento economico accessorio a risultati effettivamente raggiunti ed a metodi selettivi, nonché alle scelte programmatiche dell’ente;
  • ottenere così effetti di flessibilità nella gestione delle retribuzioni.

In altri termini, la regola del “si sale e si scende” tende a diventare prassi anche negli enti locali. E’ del tutto evidente, a questo punto, la necessità di definire effettive pratiche di controllo gestionale, e non di legittimità formale, come contrappeso ad errori o forme “patologiche” di gestione delle nuove opportunità.

E’ inoltre facile prevedere che il passaggio alle nuove regole, rompendo abitudini inveterate, crei notevoli “problemi” nel primo impatto. E come tali problemi risulteranno ampliati nel caso di gestioni dei percorsi professionali che non risultino del tutto lineari e coerenti con gli obiettivi indicati e con le logiche volute dal contratto e, più in generale, dalla nuova legislazione.

 

CAPITOLO 5: DALLA PIANIFICAZIONE, PROGRAMMAZIONE E CONTROLLO DEI CARICHI DI LAVORO ALLA PROGRESSIONE DEL PERCORSO PROFESSIONALE

Il legislatore, nel corso della progressiva introduzione di nuove regole e del nuovo modello organizzativo, ha inteso trasformare i precedenti vincoli di legittimità ed i precedenti divieti in forme di controllo più razionale e “scientifico” sulla struttura degli enti. Il legislatore, in modo “pedagogico” annota Carmine Russo nel “Commentario al DLGS n. 29/93, Giappichelli editore 1995), cerca di guidare gli enti locali nel nuovo modello. A tal fine, in modo centralistico e tecnocratico, cerca di prevedere requisiti minimi essenziali che ogni ente locale, in modo differenziato, deve possedere.

In tal senso diventa emblematico quanto previsto nel passaggio dalla vecchia pianta organica al nuovo e più dinamico concetto di dotazione organica introdotto dal DLGS n. 29/93. Il passaggio prevedeva che ogni enti locale in modo obbligatorio proceda preventivamente, e ripeta periodicamente l’operazione, alla “rilevazione dei carichi di lavoro”. Tale rilevazione doveva essere effettuata con tecniche e modelli approvati preventivamente dal Dipartimento della Funzione Pubblica. Progressivamente, ed opportunamente, la norma viene temperata, fino a che oggi essa costituisce un obbligo per un numero ristretto ed una serie di casi ristretti. La norma tentava di dare una omogeneità minima, definita su caratteristiche e standard nazionali, alle dotazioni organiche. La norma tendeva anche a introdurre tecniche che consentano l’esame analitico ed il confronto tra le dotazioni organiche degli enti locali.

Con la successiva legislazione, in particolare legge n. 127/97, Dlgs n. 80/98 e legge n. 265/99, norme trasfuse nel DLgs n. 267/2000, nonché con le leggi finanziarie degli ultimi anni, si è scelto un percorso diverso. Tali nuove logiche hanno trovato un forte e positivo riscontro nel contratto quadriennale 1998/2001 e nel nuovo ordinamento professionale.

Due le scelte di fondo:

  • privilegiare la autonomia organizzativa dei comuni;
  • introdurre il dato della progressione del percorso professionale.

Occorre considerare che tale percorso nelle ultime leggi finanziarie ha conosciuto delle spinte contraddittorie, visto che la distinzione tra pianta organica e dotazione organica è stata confusa (vedi in particolare la mancanza di chiarezza sulla possibilità di prevedere posti non coperti e che l’ente non intende coprire attraverso la programmazione delle assunzioni).

5.1 L’AUTONOMIA DEGLI ENTI

Per la autonomia organizzativa si sono previste norme assai ampie, tranne che per i comuni dissestati o deficitari, comuni ad autonomia ridotta. La autonomia trova un limite nelle risorse finanziarie dell’ente e nella esigenza di assicurare al meglio l’espletamento dei compiti dell’ente stesso.

Essa trova inoltre un limite di principio nelle norme contenute nelle leggi finanziarie, nel patto di stabilità, nel DLGS n. 165/2001 e nello stesso contratto sulla indicazione della “riduzione delle spese per il personale”.

Sono emblematiche le regole dettate dalla legge n. 488/99. Esse prevedono indicazioni di principio che i singoli enti, in modo assolutamente autonomo, sono chiamate a recepire nei propri ordinamenti. Prevedono un percorso logico specifico preventivo alle nuove assunzioni, a partire dalla loro finalizzazione. Le nuove assunzioni devono costituire una risposta obbligata, occorre prevedere in che modo con interventi (anche formativi) si possano affrontare con risorse interne le nuove necessità, bisogna privilegiare quelle ad alto contenuto professionale. Ed ancora, occorre preventivamente verificare che non sia possibile dar corso ad assunzioni con strumenti di flessibilità (a tempo determinato, formazione/lavoro, apprendistato etc); una quota significativa deve essere destinata ai contratti a part-time, sia come nuove assunzioni che come trasformazione di posti esistenti. In tale ambito occorre peraltro evidenziare che la legge n. 488/99 prevede la possibilità per i dirigenti ed i quadri di accedere al part-time. Ed ancora sono state introdotte anche per le pubbliche amministrazioni una serie di ulteriori disposizioni di flessibilità.

La legge finanziaria 2005, legge n. 311/2004, dispone inoltre la riduzione della spesa prevista dalla dotazione organica nella misura di almeno il 5% sulla base di disposizioni, non ancora adottate, che devono essere contenute nel Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri con cui si pongono limiti alle assunzioni a tempo indeterminato per gli anni 2005, 2006 e 2007.

Occorre inoltre ricordare la ampia autonomia che gli enti hanno nella utilizzazione di risorse esterne con legami a tempo determinato, quindi senza appesantimenti definitivi. Possibilità che è attualmente preclusa agli enti che non hanno rispettato il patto di stabilità Ricordiamo la possibilità di nomina del direttore generale, ed ancora le opportunità di assunzione di dirigenti/responsabili per posti vuoti nella dotazione organica o, entro limiti numerici prefissati, al di fuori della stessa. Ed ancora le possibilità di conferimento di incarichi di consulenza e di alta professionalità, incarichi a cui non è connessa la possibilità si svolgere compiti gestionali. Possibilità di conferimento di incarichi che è sottoposto ai rigidi vincoli di tipo procedurale posti dalla legge n. 311/2004 per gli enti locali con più di 5.000 abitanti.

Occorre ricordare inoltre la incentivazione dell’associazionismo tra gli enti, in particolare tra i piccoli comuni: una scelta ed una sfida che diventano sempre più obbligate. In tale ambito, il DLgs n. 267/2000 ha sottolineato la costituzione di uffici comuni o il convenzionamento per la delega di funzioni e servizi, oltre alla individuazione di un responsabile per uffici di più enti. Tale possibilità è stata disciplinata, a livello di remunerazione, dal CCNL 22 gennaio 2004.

5.2 LA PROGRESSIONE DEL PERCORSO PROFESSIONALE

Le nuove regole introducono per gli enti locali una ampia flessibilità nelle forme di valorizzazione del percorso professionale del personale. Siamo dinanzi ad una importantissima serie di strumenti mutuati dal privato, ovviamente per quanto possibile, fermo restando che vige il vincolo costituzionale del pubblico concorso per l’accesso al rapporto di lavoro alle dipendenze di una PA. E che la Corte Costituzionale ha ripetutamente in questi anni sottolineato la necessità di rispettare tale prescrizione. Vediamone i principali:

 

  1. le regole sull’accesso;
  2. la progressione economica;
  3. la progressione verticale;
  4. i concorsi interni ed i concorsi con riserva;
  5. la formazione;
  6. il trattamento economico accessorio;
  7. le indennità di posizione e di risultato.

Si deve subito sottolineare la importanza delle nuove disposizioni sull’accesso. Per ogni posto vuoto di dotazione organica le giunte hanno a disposizione, ovviamente entro gli ambiti posti dalla norma (vedi ad del titolo di studio della scuola dell’obbligo, cioè liste di collocamento, e per le categorie speciali) e le indicazioni regolamentari, una serie di possibilità:

  • concorso pubblico;
  • concorso pubblico con quota riservata agli interni;
  • corso concorso pubblico;
  • progressione verticale;
  • concorso interno per profili acquisibili unicamente all’interno dell’ente.

Una dichiarazione congiunta allegata al CCNL 22 gennaio 2004 ci ricorda che tutte le forme di selezione riservata agli interni comunque denominate devono essere ricondotte alle regole contrattuali sulle progressioni verticali. Tale dichiarazione deve essere letta sulla base della interpretazione delle Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione che, in considerazione della natura concorsuale delle selezioni interne, attribuiscono alla competenza del giudice amministrativo il contenzioso su tali forme di selezione.

L’indicare una differenza tra progressione verticale e concorso interno per profili acquisibili unicamente all’interno dell’ente continua ad avere rilievo ai fini della individuazione dei posti che l’ente può riservare a progressioni verticali, in particolare per ciò che riguarda il loro dimensionamento rispetto alle assunzioni dall’esterno.

Da sottolineare, in particolare, la necessità di articolare in modo razionale ed equilibrato la scelta tra selezione dall’esterno e progressione verticale, cioè valorizzazione di un percorso professionale interno all’ente. Nonché la ampia autonomia di cui gli enti possono godere nella individuazione dei criteri per la selezione delle progressioni verticali.

E’ evidente che ogni comune può rapportarsi alle novità come:

  1. un adempimento dovuto e che introduce solo grane e rischi, ad esempio in termini di responsabilità per i dirigenti/responsabili, e di consenso per gli amministratori;
  2. uno strumento da utilizzare solo dinanzi a forti pressioni sindacali o dei dipendenti;
  3. una importante opportunità di sviluppo dell’ente, nella consapevolezza che la valorizzazione delle risorse umane ed un percorso organico di crescita professionale costituisca una importantissima leva per il miglioramento della qualità dei servizi.

E’ evidente che solo un approccio teso a valorizzare le opportunità aperte dalla legislazione e dal contratto può risultare “vincente”.

Ma questo significa, per ogni ente:

  • acquisire specifiche professionalità;
  • darsi un progetto unitario.

E significa, anche, non limitarsi a gestire l’esistente o a fare un puro conto di compatibilità economiche rispetto a scelte strategiche avanzate da altri soggetti, ad esempio dalle organizzazioni sindacali, che assumono obiettivi, interessi e premesse ovviamente del tutto diverse.